venerdì 22 settembre 2023

IL PARADOSSO CONTROEVOLUTIVO

clip_image002Nonostante la previsione climatica, di elevata probabilità, su quanto accadrà entro una data futura e che è appena qualche generazione a venire[1], si va delineando una situazione paradossale.

Prima del cambiamento climatico indotto dalle attività umane il clima rivestiva, nel contesto dell’evoluzione darwiniana, un elemento di contingenza data la sua bizzarra imprevedibilità, come aveva ben evidenziato il grande biologo evoluzionista Stephen Jay Gould: «Il clima? Niente di più bizzarro e imprevedibile!».

Le mutazioni erano e sono sottoposte al vaglio cieco della selezione naturale anche in base a cambiamenti climatici, la sopravvivenza stessa delle specie dipendeva dall’incontro casuale di due linee contingenti: il clima della regione in cui si nasce e la possibilità o capacità di adattamento a questo. Gli evoluzionisti dicono che se riavvolgessimo il nastro della storia della vita sulla Terra e ripartissimo da zero potremmo avere pressoché infiniti finali diversi da quello attuale. La vita inaspettata che non ci aveva previsto potrebbe essere del tutto diversa, e la paleontologia ci racconta che i tentativi di evoluzione in forme di vita poi abortite lungo il percorso sono tantissimi.

clip_image004Stiamo cambiando il clima e l’ambiente in maniera del tutto prevedibile, e ne siamo consci o per lo meno, molti lo sono, la comunità scientifica innanzi tutto: sappiamo benissimo, abbiamo la scienza e la tecnologia per farlo, dove stiamo andando; siamo al corrente dei danni irreversibili, della causa diretta della cosiddetta sesta estinzione di massa, cioè Homo sapiens; è proprio di oggi la notizia che gli effetti deleteri di queste attività ha letteralmente mutilato l'albero della vita, causando la perdita non solo di specie, i ramoscelli nella metafora dell’albero, ma anche di rami veri e propri che raggruppano più specie imparentate fra loro, i generi: 73 quelli di animali vertebrati che sono già scomparsi dalla faccia della Terra.

Conosciamo con margini di certezza altissimi cosa accadrà, addirittura lo abbiamo misurato e lo vediamo in atto ormai da decenni, ignorando incoscientemente che ne saremo vittime, per di più consapevoli come suicidi, continuando in corsa sulla strada aperta dal cambiamento climatico.

Ed ecco il paradosso.

Qualunque essere vivente è il frutto di una duplice causalità[2], con una parte notevole svolta dal caso. Gli esseri viventi sono sistemi dinamici le cui vicissitudini non possono che obbedire alle leggi del mondo fisico ma, a differenza degli oggetti inanimati, hanno anche un loro percorso indipendente, essendo forzati a seguire i dettami delle istruzioni racchiuse nel loro patrimonio genetico. Un altro grande biologo, Ernst Mayr, avrebbe detto che sono sistemi chimico-fisici spinti da una causalità fisica ma che godono di una sorta di libertà vigilata, essendo forzati a seguire il più fedelmente possibile le istruzioni del proprio genoma.

clip_image006 E se prima eravamo in balia degli eventi contingenti l’enorme vantaggio evolutivo che Homo sapiens ha tratto dalla possibilità di avere anche un’evoluzione culturale da affiancare a quella biologica, quella che lo ha portato dai rudimentali attrezzi di selce alla Luna o in cima all’Everest, questa stessa evoluzione culturale non sta comportando la necessaria reazione, l’intelligenza non sta portando all’attenzione primaria: che la strada che abbiamo intrapreso è deleteria, pur con tutta la consapevolezza che comunque vadano le cose su questo pianeta la vita saprà trovare altre strade, forse la stessa umanità sopravviverà, a costo di perdite spaventose al cui confronto le grandi epidemie di peste sono banali raffreddori e, in caso contrario, la Terra stessa sopravviverà a noi stessi molto prima che, tra un miliardo di anni, la luce del Sole inizi ad indebolirsi cambiando definitivamente il clima del pianeta, ancora una volta, ma facendolo se non altro in modo naturale.

Paradossalmente ci siamo portati su una strada di cui conosciamo benissimo il percorso e non stiamo facendo nulla per cambiarlo, o per lo meno, siamo ancora alle chiacchiere preliminari quando siamo in ritardo spaventoso con i fatti, soprattutto quelli che riguardano l’adattamento.

Qualcuno resterà a raccontarlo. Dopotutto, a causa di un mutamento climatico di segno opposto e del tutto naturale, i vichinghi groenlandesi furono decimati dal ritorno del freddo, quello vero, alla fine del XIII secolo, ma gli indigeni, gli inuit, non ne furono minimamente colpiti.

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[1] Si dice meno di un secolo. Quattro generazioni appena. Guardando al passato persone di cui avete avuto notizie dirette, i bisnonni, o i loro genitori. E noi stessi saremo parte delle storie dei nostri pronipoti, o dei loro figli.

[2] CaUsalità, attenzione, non CasUalità

venerdì 15 settembre 2023

ILCONSENSO SCIENTIFICO

 

clip_image002Premessa

«Che cosa tenta di descrivere la scienza? Il mondo, naturalmente. Di quale mondo si tratta? Del nostro mondo, nel mondo in cui noi tutti viviamo e con il quale interagiamo. A meno che la scienza non abbia fatto degli errori davvero madornali, il mondo in cui noi oggi viviamo è un mondo fatto, tra le altre cose, di elettroni, elementi chimici e molecole di RNA. Il mondo di mille anni fa era un mondo di elettroni e RNA? Sì, anche se all’epoca non lo sapeva nessuno.

Ma se qualcuno avesse pronunciato la parola elettrone nel Medioevo non avrebbe significato nulla; quanto meno, non quello che significa ora. Il concetto di elettrone è il prodotto di dibattiti ed esperimenti che hanno avuto luogo in un contesto storico specifico. Quindi come possiamo dire che il mondo del Medioevo era un mondo di elettroni e RNA? Non possiamo farlo; dobbiamo invece considerare l’esistenza di queste cose come dipendenti dai nostri concetti, dai nostri dibattiti e dalle nostre negoziazioni.

Per qualcuno, le affermazioni fatte nel primo paragrafo sono talmente ovvie che solo una persona completamente confusa potrebbe negarle. Il mondo è una cosa e le nostre idee su esso un’altra. Per altri, gli argomenti del secondo paragrafo mostrano che c’è qualcosa di terribilmente sbagliato nelle affermazioni apparentemente semplici del primo. L’idea che le nostre teorie descrivano un mondo reale che esiste in modo completamente indipendente dal pensiero e dalla percezione è un errore, collegato ad altri errori riguardanti la storia della scienza e del progresso, e alla fiducia e all’autorità che dovremmo accordare oggi alla scienza.»[1]

Il brano del filosofo della scienza Peter Godfrey-Smith, mette in evidenza le difficoltà e gli ostacoli con cui il mondo scientifico, e non solo, deve confrontarsi per sostenere di continuo l’immagine positiva che la scienza deve avere: operando con modalità cooperative e guidata da spirito critico. Soprattutto in questi tempi, con le interazioni tra scienza e mercato che stanno portando conseguenze di grande portata, diventa essenziale valorizzare l’autodeterminazione della scienza stessa. E allora ecco il tema.


Il consenso scientifico

Consenso - Il CONSENSO è la concordanza tra la volontà o tra le idee di due o più persone: in questo significato, dunque, la parola è un sinonimo di accordo[2]

Ma cosa rappresenta davvero il consenso in ambito scientifico? Cosa significa che una determinata idea, o una teoria, goda del consenso della comunità scientifica? E’ misurabile?

Il tema del consenso, e di conseguenza di un eventuale fine del dibattito scientifico intorno ad un determinato argomento, tratta di soggetti di cui spesso si sente parlare sui media con, o più spesso senza, un reale chiarimento di cosa questo rappresenti. In questi ultimi anni è piuttosto diffusa, ad esempio, una sorta di querelle intorno al consenso scientifico relativo al cambiamento climatico in atto.

Mappa concettuale della parola “Consenso”

Il consenso è dunque un accordo, in particolare un accordo che viene esplicitamente stabilito e quindi, tornando e restando in ambito scientifico, il consenso implica normalmente un accordo relativo ad un particolare approccio, o meglio, su una particolare teoria – scientifica ovviamente.

Potremmo, in ambito scientifico, avere persone non completamente d’accordo tra loro, ma ciò non vieta che possa esserci un certo grado di consenso anche senza accordo completo o senza completa fiducia in una determinata teoria. Il termine grado comporta la misurabilità di qualcosa e laddove i membri di una comunità scientifica abbiano gradi di credenza simili e ragionevolmente alti riguardo a qualche ipotesi, ecco che emerge il consenso - addirittura misurabile con formule matematiche di tipo probabilistico e statistico.

E’ stato usato il termine credenza e occorre fare una brevissima digressione. Credere in qualcosa significa riconoscerla per vera e, senza avventurarci nei labirinti della definizione di verità, spesso vicoli ciechi, è indubbiamente affermabile che la fiducia in una teoria scientifica, o in una sua ipotesi, è un tipo di credenza del tutto analogo a quel che potrebbe essere la credenza in uno spirito maligno che scatena i temporali o una qualche forma di fede religiosa e dogmatica: dimostrabilità a parte la differenza principale è che nelle credenze scientifiche il grado di fiducia è spesso talmente alto, che chi crede è pronto a scommetterci su. E di nuovo la parola grado ha fatto la sua comparsa.

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Karl Popper, a sinistra, e Paul Feyerabend

Non è proprio brainstorming

clip_image008 Tornando alla questione relativa al disaccordo in una comunità scientifica va detto che ciò rappresenta un valore: moltissimi filosofi della scienza, da Popper a Feyerabend non avevano nulla in contrario e ritenevano che il dibattito, la creatività, la libera esplorazione delle idee, fossero alla base di una ricerca scientifica libera e svincolata da pregiudizi di ogni sorta, e soprattutto svincolata dalle aspettative dei singoli ricercatori che spesso influenzano negativamente l’obiettività e senza dimenticare quel certo grado di serendipità che ci racconta la storia della scienza.[3] Nell’esplorazione creativa delle idee il consenso è del tutto opzionale e se per Popper non c’era affatto da preoccuparsi in caso di mancanza di consenso, o se Feyerabend auspicava una sorta di diversificazione permanente, resta evidente che a volte una certa questione scientifica va comunque risolta, ed una volta fatto se ne deve accettare la risoluzione, soprattutto quando questa deve indurre o indurci in azione, quando dobbiamo fare qualcosa guidati dalla scienza. Qualcuno direbbe, nel gergo aziendale in voga negli ultimi decenni, ben vengano Free-Wheeling e Brainstorming, ma senza esagerare, purché se ne esca e si agisca.

(Se d’ora in poi i vostri pensieri andranno alla recente pandemia da Covid-19 o alle tematiche relative al cambiamento climatico, siete giustificati.)

La ricerca del consensoimage

Le informazioni di cui è in possesso una comunità scientifica implicano spesso, se non sempre, la divulgazione ad enti governativi o simili allo scopo di prendere decisioni politiche. E la domanda che gli scienziati si sentono rivolgere è questa: c’è consenso scientifico su questo tema?

Se, come accade nella maggioranza dei casi, c’è accordo completo all’interno di una comunità scientifica, ambito per ambito ovviamente, non c’è problema. Altre volte potrebbe esserci una maggioranza, anche molto ampia, ma anche dei dissidenti. E qui la cosa si complica, perché spesso la dissidenza ha come fonte valenti scienziati o comunque persone addette ai lavori. C’è un modo per complicare la questione, e negli anni passati ne abbiamo viste di ogni tipo. Basterà inserire, spesso strumentalmente o pretestuosamente, persone assolutamente estranee alla comunità e ignoranti in materia, invitandole a…dire la loro: ciò darà l’illusione che esista un dibattito tra posizioni rigorose e non e, peggio ancora, un dibattito tra opinionisti o influencer e ricercatori e scienziati. Ciò ovviamente non va ad escludere dal dibattito terze parti che pur non appartenendo al mondo scientifico, quali sociologi o filosofi, potrebbero comunque fornire indicazioni preziose. L’esclusione senza appello è per quei personaggi che buona parte dei media sono soliti invitare in trasmissione al solo scopo di aumentare l’audience.

E’ sempre la scienza ad indicare la strada da percorrere nel caso in cui non ci sia completezza di consenso. Senza entrare nei suoi complessi dettagli il Teorema di Bayes, associato alle idee di Frank Ramsey, indica quale azione migliore scegliere pur considerando che il mondo potrebbe essere fatto diversamente da come lo si ritiene: è questione di scelta delle possibilità più probabili e quali meno, cose su cui le persone saranno in disaccordo quando non c’è consenso. In precedenza è stata associata alla credenza la possibilità che ci si possa scommettere su e una scommessa è guidata da parametri statistici di maggiori o minori probabilità che eventi possano accadere. Ecco perché è possibile utilizzare metodi analitici, scientificamente validi, per individuare le migliori opzioni relative al consenso. Ovviamente quando il disaccordo è molto forte, e complicato dal rumore di fondo delle migliaia di dissonanze amplificate e rilanciate dai social, il problema non sarà risolto in fretta anche se spesso può sussistere un certo grado di urgenza, soprattutto nel calcolare prima possibile quali sono le scelte dagli esiti sicuramente disastrosi.

Chiudere il dibattito

clip_image012Se la questione oggetto di dibattito scientifico è risolta sarà la stessa comunità scientifica a dichiarare che il dibattito si è concluso, con una sorta di consenso spontaneo, oppure occorrerà un’ulteriore valutazione della serietà delle incertezze residue, con un consenso curato nel modo in cui debbano essere fatte dichiarazioni pubbliche. L’attenzione maggiore va ovviamente alle tempistiche relative alla conclusione del dibattito: se precoce potrebbe avere come conseguenza, dagli esiti anche drammatici, quali quelli di una decisione politica presa sulla base di un’idea scientifica errata o incompleta; se tardivo, comporterebbe spreco di tempo e risorse, e ancora portare a decisioni politiche più o meno gravi, oltre alla perdita di progresso scientifico. Tardivo o precoce sono entrambi dannosi.

In passato queste decisioni erano prese a porte chiuse, e altrettanto privato era il confronto politici-scienziati. Oggi, nelle moderne società democratiche, con i flussi di informazioni liberi, e con una comunità scientifica interconnessa a livello internazionale, ciò non è possibile e alla comunità scientifica viene spesso richiesto di dire le cose nella maniera più chiara possibile. In altre parole le si chiede responsabilità pubblica, e se il consenso spontaneo riguarda soltanto le interazioni sociali tra membri della comunità scientifica, e loro posizioni individuali, il consenso curato coinvolge la società più ampia, di cui la comunità scientifica è parte. E ancora, oggi abbiamo moltissimi consumatori esterni di informazioni scientifiche, tra cui migliaia di ottimi divulgatori ed esperti, con cui la comunità scientifica deve confrontarsi raggiungendo un compromesso: impedire ad esempio che alcuni individui ossessionati possano boicottare o fermare l’uso ragionevole di una conoscenza conquistata faticosamente.

Un esempio dal passato

clip_image014C’è un caso famoso e drammatico su cui riflettere che viene dal passato recente e che riporterà alla mente le dolorose conseguenze di alcune scelte politiche di minoranza, le scelte novax per esempio, o quelle che hanno seguito l’onda della cosiddetta immunità di gregge senza sapere affatto cosa ciò sia: scelte altrettanto sbagliate, e scellerate, fatte in occasione della pandemia da Covid-19 e, in senso più generale, quelle che non sono state o che non saranno fatte, nel caso dei processi di reazione e/o adattamento ai cambiamenti climatici[4].

Nei primi anni ’80 l’epidemia di AIDS, che allora non aveva nemmeno questo nome, si diffondeva come malattia che colpiva soprattutto gli omosessuali maschi, gli emofiliaci e i consumatori di droga per via endovenosa, e sempre nello stesso periodo si scoprì che un retrovirus poteva esserne causa[5].

Nonostante le evidenze si andassero accumulando fin dall’inizio ci furono alcuni dissidenti che ipotizzarono, in base ai loro studi, che il retrovirus HIV non aveva nulla a che fare con l’AIDS, formulando ipotesi diverse che potevano ragionevolmente tenere aperto il dibattito scientifico nonostante un largo consenso per l’ipotesi Gallo-Montagnier. Ciò nonostante, nel 1988 la National Academy of Sciences degli Stati Uniti elaborò una dichiarazione riassuntiva ove si affermava che «l’evidenza che l’HIV è la causa dell’AIDS è scientificamente conclusiva». Col senno di poi questa presa di posizione può essere considerata del tutto precoce perché gli esperimenti, fondamentali e determinanti per fare affermazioni di causa-effetto, non avevano chiarito ancora i motivi per cui l’HIV potesse causare molti danni.

Pochi anni dopo l’epidemia di AIDS nell’Africa subsahariana divenne un problema enorme e l’allora governo del presidente Mbeki in Sud Africa prese posizioni poco ortodosse, fino ad includere nel 2000 all’interno del comitato scientifico consultivo il biologo Peter Duesberg, principale rappresentante delle posizioni dissidenti sull’HIV. Il governo dichiarò di non voler procedere nell’affrontare l’epidemia con i farmaci retrovirali usati altrove, di essere interessato a riflessioni e altre opportunità.

Paradossalmente questo atteggiamento scientifico può essere appropriato in qualche modo, quando il consenso non è unanime e la dissidenza viene da fonti piuttosto autorevoli e ascoltabili; ma in questo caso, la posizione durata circa 3 anni, fino al 2000, provocò direttamente la morte di diverse centinaia di migliaia di persone, come risultato delle decisioni del governo di Mbeki.

Nulla è certo, la storia mostra che possono arrivare grandi sorprese, «la cosa importante è non smettere mai di interrogarsi» disse una volta Albert Einstein, ma dobbiamo anche agire, prendere decisioni e in questo caso l’evidenza che l’HIV era la causa dell’AIDS era forte e si era accumulata regolarmente nel corso degli anni ’80 e ’90. La situazione di emergenza imponeva che le si desse seguito accettandola.

Come trattare la malattia è un’altra storia. L’unico farmaco allora in uso era il Retrovir ed è un farmaco estremamente tossico. Pur accettando le teorie dominanti c’erano forti sospetti sulle compagnie farmaceutiche che giustificavano la dissidenza se non altro allo scopo di incentivare la ricerca di altre opzioni. Oggi si conoscono molto in dettaglio i modi in cui l’HIV porta alla malattia e già dalla metà degli anni ’90 si iniziarono a sviluppare trattamenti farmacologici migliori.

 

clip_image016La morale

Non è dato sapere se questo caso emblematico di ricerca del consenso scientifico possa fornire spunti per altri contesti, per qualcosa che ci tocca da vicino nel tempo e nello spazio come premesso all’inizio del paragrafo. Forse. Ma sicuramente emerge che c’è un lato negativo dell’attraente idea che sarebbe sempre bene mantenere una mentalità aperta ed evitare di chiudere il dibattito. Va bene continuare ad interrogarsi, va bene la ricerca continua di nuove idee[6] ma occorre anche e soprattutto agire.

Sarebbe fantastico continuare ad interrogarsi se le politiche fossero guidate dal peso di opinioni esperte, Franco Battiato avrebbe detto il centro di gravità permanente della comunità scientifica, e soprattutto senza minarle con uno scetticismo, idiota ed inutile molto spesso o ancora peggio, alimentato da pressioni politiche interessate.

Purtroppo, come accennato in precedenza, è diventato sempre più difficile nei casi recenti, soprattutto nell’importante caso del cambiamento climatico accelerato, oltre ogni ragionevole dubbio, dalle attività di origine antropica. Ma la ricerca di consenso, in questo caso, per quanto le evidenze siano notevoli e consolidate, vede numerosi tentativi di tenere il dibattito ancora aperto, a tratti spalancato verso strade che comporteranno soltanto perdite di tempo e spreco di risorse, soprattutto per quanto riguarda la tematica più importante da sottoporre all’attenzione di tutti: cambiamento va bene, ma di adattamento quando ne trattiamo?

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[1] Peter Godfrey-Smith. “Teoria e realtà. Introduzione alla filosofia della scienza.

[2] Enciclopedia Treccani online

[3] Telmo Pievani ha scritto un bellissimo libro in proposito, intitolato appunto “Serendipità”.

[4] In questo caso la tematica è vastissima e l’affermazione va intesa come un’ampia generalizzazione.

[5] Molti ricorderanno la disputa per la paternità della scoperta tra l’americano Robert Gallo e il francese Luc Montagnier; di quest’ultimo si ricorderanno anche le dichiarazioni choc che rilasciò all’inizio del 2022 sull’inutilità e addirittura sulla criminalità del vaccinare i bambini, dichiara

[6] Anche se, in questo mondo reale, la competizione, ancorché cooperativa, e la ricerca continua di fondi per la ricerca rendono la stessa spesso molto selettiva.

NOTE A MARGINE DEGLI EVENTI ALLUVIONALI DEL MAGGIO 2023 IN EMILIA ROMAGNA

clip_image002Con l’autunno si iniziano a temere gli effetti di eventi meteorologici estremi, a causa della naturale propensione meteorologica che vede, mediamente, piovere di più alle nostre latitudini in quel periodo dell’anno. Ed è spontaneo andare ai ricordi dei recenti episodi emiliano-romagnoli, delle alluvioni in Francia e delle cronache di queste ore del disastro, soprattutto umanitario, che ha colpito la Libia in questi giorni, e poco cambia anche considerando che in quest’ultimo caso la stragrande maggioranza delle vittime è stata dovuta al cedimento delle dighe, dighe che avrebbero dovuto proteggere Derna e sono invece state la sua rovina.

Ecco perché, a seguito della lettura di un interessante articolo, proprio relativo alle tristi cronache ambientali nazionali, l’attenzione ritorna su quel che troppo spesso viene utilizzato come alibi a coprire le necessarie azioni preventive.

Premessa

Mi scuseranno gli autori dell’articolo a cui mi sono ispirato per questa premessa: dopo tutto per raccontare dei fatti non ci sono molti modi.

In due distinti periodi dello scorso mese di maggio vaste aree dell’Emilia Romagna sono state interessate da due eventi meteorologici estremamente intensi, verificatisi in breve successione, il primo dall’1 al 3 ed il secondo il 16 al 18[1], comportando precipitazioni eccezionali, che hanno superato ampiamente la soglia dei 400 millimetri di pioggia[2]. I valori riportati dalla fitta rete di stazioni di monitoraggio pluviometrico, con dati usufruibili in tempo pressoché reale grazie ad Internet, hanno tutti registrato valori significativi. I fenomeni atmosferici hanno interessato soprattutto le zone pedemontane, collinari e pedecollinari, con quantità leggermente inferiori in pianura.

La configurazione meteorologica europea durante il mese di maggio ha subito un cambiamento sostanziale, con l'instaurarsi di anticicloni che si estendevano dall'Atlantico alla Scandinavia, mentre contemporaneamente si attestavano zone depressionarie sull'Italia e sul Mediterraneo centrale. Questa particolare configurazione ha portato un flusso frequente di precipitazioni abbondanti su gran parte della penisola, contribuendo a mitigare la preoccupante siccità che aveva afflitto sia la regione che l’intera Italia nell'ultimo anno e mezzo. Purtroppo le precipitazioni intense non contribuiscono al rifornimento dei suoli profondi e delle risorse idriche sotterranee che hanno invece bisogno di piogge più lente e costanti, nonché delle acque di fusione della neve, che ha scarseggiato sia nelle Alpi che negli Appennini durante l'ultimo inverno.

Da un altro punto di vista, sfortunatamente, questa situazione atmosferica ha portato episodi alluvionali straordinari, che hanno colpito in particolare l'Emilia orientale e la Romagna durante i cicli intensi di piogge nei due periodi di maggio indicati.

Considerazioni

Che il cambiamento climatico in atto, osservabile e misurabile ormai oltre ogni ragionevole dubbio, possa portare direttamente a fenomeni meteorologici estremi è un fatto; che i fenomeni climatici relativi alle oscillazioni di El Niño possano comportare disastri meteorologici anche a distanze enormi dal Pacifico è un altro.
Ma chiamare in causa sempre e comunque, a mo' di alibi, il cambiamento climatico sta diventando quasi una moda.

Che le precipitazioni del mese di maggio 2023 siano state del tutto eccezionali, soprattutto in termini di rapidità con cui sono andate cumulandosi e concentrandosi sul territorio, è comunque evidente dalla lettura dei dati[3]. Le piogge del mese hanno raggiunto un valore totale medio regionale di 250 mm, superiore di 175 mm rispetto al valore medio climatico (+230%), valore più alto dal 1961; anche rispetto al valore medio, l’anomalia è di circa +173 mm. A livello territoriale, si riscontrano anomalie eccezionali sulle colline e sui rilievi tra Bologna, Forlì-Cesena e Ravenna, anche lungo la costa, con picchi fino a +500% rispetto alla media 2001-2020, mentre nella parte più occidentale della regione le anomalie, pur presenti e positive, sono molto più contenute, intorno a +50%.

L’osservazione dei grafici[4] delle precipitazioni cumulate e dell’anomalia delle precipitazioni totali mensili rispetto al 2001-2020 (in mm di pioggia) sono autoesplicative.

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clip_image006

clip_image008L’articolo
Sul numero
3/2023 della rivista "Geologia dell'Ambiente" edita dalla SIGEA - Società Italiana di Geologia Ambientale, il primo articolo (pag. 2) ripercorre gli eventi alluvionali del maggio 2023 che interessarono l'Emilia Romagna, con danni diretti stimabili in circa 15 miliardi di euro, 15 vittime e decine di migliaia di evacuati.
Eventi eccezionali quelli dell'1-3 e del 16-18 maggio ma, come vedremo, non certamente unici o imprevedibili, né non ricordabili a memoria d'uomo, nonostante questa sia spesso molto corta.

Gli autori riportano che è bastata una semplice ricerca a tavolino di pochi giorni, condotta analizzando i documenti estratti da varie fonti pubbliche, per ritrovare dozzine di episodi alluvionali dovuti a fenomeni meteorologici intensi, episodi accompagnati da rotture degli argini di numerosi corsi d’acqua con frequenza pressoché annuale; solo nel corso del XVIII secolo il fiume Lamone (uno dei fiumi che ha rotto nel maggio 2023 allagando Faenza), ricordano le cronache, ruppe ben 22 volte in 60 anni, citando inoltre episodi del tutto analoghi a quelli di quest’anno. Il più simile nel 1939, persino nei periodi, con due episodi nel mese di maggio, caratterizzato da precipitazioni estese e fino a 400-500 mm sull’Appennino Tosco-Romagnolo che comportarono lo sconvolgimento dell’intero territorio romagnolo con associate perdita della produzione agricola, di capi di bestiame morti per annegamento e disfacimento pressoché completo della rete viaria. In definitiva, dozzine di eventi fotocopia.

Previsione, prevenzione e allertamento

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Anche soltanto intuitivamente emerge che gli episodi del maggio 2023 possono essere annoverati tra quelli possibili, anche più volte l’anno. Ciò comporta un certo grado di prevedibilità, pur considerando che molto spesso i tempi con cui si sviluppano le celle temporalesche -che danno origine ai cosiddetti downburst- sono strettissimi; ma con accurate operazioni di monitoraggio, che in questo caso non sono certamente mancate, è possibile quanto meno mitigare i danni e soprattutto consentire alla popolazione un certo grado di salvaguardia. Va detto che ARPAE emanò due bollettini di allerta per le onde fluviali di piena dapprima arancione e poi rossa per gli episodi dell’1-3 maggio e direttamente rossa per quelli del 16-18. Se così non fosse stato, come ad esempio nel 1939, le vittime e il numero di sfollati sarebbero probabilmente state molte di più.

Pur considerando che l’anomalia nelle precipitazione del maggio 2023 ha di gran lunga superato la media storica il fenomeno, con intensità minori o a volte analoghe, è storicamente conosciuto in quelle stesse regioni, e in un certo qual modo, peggiorante al crescere delle condizioni generali dovute all’aumento della antropizzazione del territorio, del conseguente incremento del consumo del suolo, dell’abbandono delle zone montane e pedemontane e della relativa cura delle aree boschive e di sottobosco, che spesso fanno da freno al deflusso delle acque meteoriche. Queste condizioni non possono che aver peggiorato o intensificato gli effetti di eventi meteorologici eccezionali, ma non unici lo si ripete, in oggetto.

 

Analisi dei dati

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Al conteggio estratto dalla lettura dell’articolo sono stati aggiunti i due episodi del 2023 per un totale di 60 episodi documentati dal 1636 al 2023, riassunti nella tabella. Per il 10 percento del totale degli episodi riportati non è noto il mese dell’accadimento e mancano inoltre riferimenti di dettaglio per le 22 esondazioni del Lamone riportate per circa 60 anni del XVIII secolo.

Da un’analisi numerica degli episodi riportati è emerso come la maggioranza degli episodi alluvionali a seguito di intense ed anomale precipitazioni, siano, come attendibile, concentrati nei periodi autunnali, mediamente da fine settembre a parte di dicembre, con una media di circa 8 episodi al mese, notoriamente più piovosi alle nostre latitudini con dei picchi in novembre (con ben 12 episodi su 60 pari al 20 percento della serie); non va però trascurata la numerosità dei mesi di maggio e gennaio, con 6 e 5 episodi rispettivamente.

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Conclusioni

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La cosa importante che emerge abbastanza chiaramente da questa analisi essenziale è che la regione non è affatto nuova ad episodi eccezionali o comunque assimilabili, con un frequenza ed una conoscenza tali, soprattutto per gli ultimi decenni, da non rendere tollerabile demandare a Giove pluvio la causa di questi disastri che ogni anno colpiscono il nostro territorio; ed altrettanto intollerabile è l’appello all’ineluttabilità degli eventi perché causati dal cambiamento climatico che ha, molto probabilmente e quasi sicuramente, un certo grado di corresponsabilità, ma non ne è certo la causa primaria. Senza per questo negare l’evidenza, lo si ribadisce, che il cambiamento è in atto e che ancora oggi, a decenni di distanza dai primi allarmi, molto poco si è fatto in termini di azioni di contrasto e soprattutto nulla si sta facendo in tema di adattamento al cambiamento consci della storia climatica del nostro pianeta e delle conseguenze che questa ha avuto sulla distribuzione di popoli e risorse. E adattamento significa anche prevenzione e, laddove possibile, previsione allo scopo di mitigare i danni di questi disastri. Il disastro emiliano-romagnolo è un ulteriore terribile test di un dissesto non soltanto territoriale, ma anche amministrativo. Sembra che a nulla siano valse le insistenze presso i governi che si sono succeduti negli anni affinché siano rafforzati i servizi tecnico-scientifici di Stato, fulcro necessario di un coordinamento delle azioni di prevenzione e di difesa del territorio. Nonostante questo la tendenza, ormai acclarata, è stata quella di delegare tutto agli enti locali senza però assisterli adeguatamente e, gravissimo ancorché endemico, quella di emarginare i servizi tecnico-scientifici di Stato e le professioni a questi associate.

Aspettando la prossima alluvione…


[1] L’articolo indica 16-17 ma i dati ARPAE (Agenzia Prevenzione Ambiente Energia Emilia Romagna) sono relativi all’intervallo 16-18.

[2] Ogni millimetro in altezza di pioggia caduta corrisponde ad un litro d’acqua per ogni metro quadro di superficie.

[3] Fonte ARPAE (Agenzia Prevenzione Ambiente Energia Emilia Romagna)

[4] Ibidem

lunedì 21 agosto 2023

COMPLESSITA’, CLIMA E GAMBERI

Parafrasando Tolstoj[1] «Tutti i sistemi semplici sono semplici allo stesso modo; ogni sistema complesso è complesso a modo suo». Ma cos’è un sistema complesso? Certamente la varietà è uno dei suoi evidenti aspetti ma dietro di esso ci sono alcune caratteristiche comuni.

Non esiste una definizione canonica di complessità, cioè in grado di cogliere tutte le sfumature del termine in modo unanime e condiviso, una definizione che quindi non generi fraintendimenti.

Innanzi tutto sicuramente “complesso” differisce da “semplice” ma occorre precisare che comunque “complesso” non è sinonimo di “complicato”. Un aereo è certamente complicato, con centinaia di migliaia di componenti e funzioni, ma non per questo è complicato: il suo funzionamento interno e il suo moto possono essere descritti sulla base di poche grandezze ed alcune semplici leggi.

Con un altro esempio il sistema nervoso degli insetti si ripete identico in tutti gli esemplari di una data specie, selezionato durante l’evoluzione di queste per svolgere certe funzioni e con limitata capacità di apprendimento: è certamente complicato ma la sua rigidità non lo rende particolarmente complesso. Di contro, il sistema nervoso umano è probabilmente quanto di più complesso si possa avere, per qualcuno persino nell’intero Universo: le sue connessioni sono in parte casuali, non sono ottimizzate in partenza per svolgere i compiti e soprattutto cambia e si adatta imparando dall’esperienza. Rita Levi Montalcini definiva il cervello un accrocco evolutosi riciclando di volta in volta quel che c’era a disposizione e adattandone le parti a nuove funzioni. Un accrocco estremamente complesso.

In poche parole, si può anticipare una definizione di sistema complesso inteso come qualcosa di cui si può parlare a lungo, ovvero più cose possiamo dire sul comportamento di un sistema, più ricco è il linguaggio da usare, più variegata la sua descrizione, maggiore è la complessità del sistema. E se state pensando ai trattati filosofici non posso darvi torto in quanto a complessità.

clip_image004Tornando ad essere seri facciamo due esempi e compariamoli. Un bicchiere d’acqua e un cane. Per quanto riguarda l’acqua una volta che se ne conoscano temperatura e pressione in genere non c’è altro da dire (a meno che non ci si trovi in quelle condizioni in cui due fasi, ad esempio liquido e solido, coesistono), ed è del tutto inutile cercare di specificare tutte le posizioni e le traiettorie di ogni singola molecola d’acqua perché esiste un unico stato macroscopico: quello determinato dalla temperatura e dalla pressione. Un bicchiere d’acqua è un sistema semplice.

clip_image006Un cane, invece, ha una ricca descrizione di stati, e ognuno può essere scomposto in altri: può saltare, abbaiare, stare seduto, correre, scodinzolare, e da uno qualsiasi di questi comportamenti può passare rapidamente ad un altro. E ciò lo rende un sistema complesso.

C'è sale dentro a Urano e Nettuno? - MEDIA INAFAncora, confrontiamo un cristallo con un vetro: ogni cristallo ha una struttura cristallina che si ripete nello spazio, identica a se stessa e può essere identificato con pochi parametri; un vetro è un sistema disordinato con gli atomi e le molecole che possono trovarsi in un innumerevole di configurazioni diverse.

clip_image008E possiamo dire lo stesso dei polimeri biologici come quelli che costituiscono le proteine o gli acidi nucleici DNA ed RNA, che possono esistere in moltissimi stati diversi di ripiegamento e passare dall’uno all’altro rapidamente.

Quindi, riformulando, un sistema complesso è caratterizzato dal fatto di poter esistere in tanti stati macroscopici, tutti rilevanti, e di poter passare velocemente da uno stato a un altro[2]. E ciò rende impossibile prevedere in modo esatto il comportamento macroscopico di questi sistemi. Sottolineo macroscopico perché sappiamo dalla Meccanica Quantistica che avvicinandosi alle dimensioni del mondo atomico e subatomico, il microscopico, la determinazione dello stato di un sistema o meglio, di una delle sue grandezze osservabili, abbandona definitivamente il mondo deterministico potendo coesistere ad esempio in due stati contemporaneamente, indeterminati e non prevedibili, che diventano reali solo al momento della misura.

L’idea e i concetti di base da applicare invece ai sistemi macroscopici complessi risalgono ai lavori di Ludwig Boltzmann che inventò la Meccanica Statistica, in grado di calcolare la distribuzione di probabilità delle molte diverse realizzazioni microscopiche (a livello atomico) di un determinato macrostato: in parole più che semplici temperatura e pressione dell’acqua in un bicchiere dipendono dalla media statistica delle energie delle singole molecole (i microstati) che compongono l’acqua (il macrostato) in un determinato momento.

Ma nella meccanica statistica dei sistemi complessi le cose…si complicano! E parecchio perché in questi casi si calcola la probabilità di avere certi macrostati e si determinano le relazioni tra di essi, oppure si calcola il tempo medio che un sistema passa in un certo macrostato piuttosto che in altri possibili. Si tiene in altre parole conto delle relazioni e nelle interazioni tra i possibili innumerevoli macrostati.

clip_image010Una delle conseguenze della complessità è che un sistema complesso è tale che piccoli cambiamenti nella sua dinamica lo fanno passare in uno stato completamente diverso: è il caos, un comportamento “caotico” in senso stretto perché i sistemi caotici dipendono fortemente dalle condizioni iniziali, basta una loro variazione insignificante che le traiettorie, dopo un certo tempo, saranno completamente differenti. Ed è proprio questo il modo di comportarsi dei sistemi complessi: piccolissime perturbazioni hanno effetti enormi sui macrostati.

E arriviamo ad un punto complicato ma non troppo. Le condizioni iniziali, l’input di un sistema complesso, possono essere addirittura amplificate, rendendo l’evoluzione conseguente ancor più caotica e imprevedibile. Si tratta della cosiddetta Risonanza Stocastica che è parte integrante dei sistemi complessi, altresì detti sistemi dinamici non lineari, che non evolvono nel tempo con linearità e prevedibilità, e della teoria del caos. In alcuni sistemi non lineari si può osservare una certa frequenza caratteristica, si mostrano in cicli evidenti, al momento in cui una determinata quantità di rumore di fondo produce un’amplificazione del segnale (non tutto il rumore di fondo copre il segnale, a volte può esaltarlo).

La prima volta che si teorizzò questo fenomeno fu all’inizio degli anni ’80, per spiegare un apparente paradosso climatico.

Era noto da tempo, dati paleoclimatici alla mano, che nel corso della storia della Terra si sono succedute, più o meno ogni 100.000 anni, variazioni di temperatura dell’ordine di 10 °C, strettamente correlate con il flusso di energia proveniente dal Sole che, a causa dell’ellitticità dell’orbita terrestre, dell’inclinazione dell’asse e delle sue variazioni, e della cosiddetta precessione degli equinozi[3], cambia periodicamente con cicli di periodo simile (sono i cosiddetti, e piuttosto famosi, Cicli di Milanković).

Approfondendo si notò immediatamente che le variazioni dell’energia solare sono insufficienti da sole a spiegare i cambiamenti di temperatura osservati: ed ecco che entra in gioco la risonanza stocastica. La circolazione atmosferica e quella oceanica hanno dinamiche certamente complesse ma possono essere correlate a periodi molto più brevi dei cicli di 100.000 anni: possiamo quindi considerarle come un rumore, combinate con i cambiamenti periodici del flusso di energia solare inducono grandi variazioni della temperatura globale.

Oltre alle ovvie applicazioni in climatologia, nel corso degli anni si è capito che la risonanza stocastica è un fenomeno generale, del quale sono state trovate centinaia di manifestazioni e applicazioni (dall’ottica alla chimica, dalla biologia all’economia finanziaria) e addirittura in un gambero d’acqua dolce che possiede un sistema di recettori in grado di rivelare, mediante il meccanismo della risonanza stocastica, i deboli movimenti d’acqua prodotti dall’avvicinarsi di un predatore.

Nella figura successiva sono illustrati i cicli di variazione relativa della temperatura media della Terra.

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Tornando alla climatologia, argomento molto di moda da qualche anno a questa parte, appare evidente che, oltre ad essere una scienza relativamente giovane[4], è strettamente legata alla complessità ed alle leggi probabilistiche dei sistemi non lineari, con parametri tali per cui le condizioni iniziali possono variare a volte inavvertitamente ma provocare enormi cambiamenti nell’evoluzione del sistema. Tant’è che ancora oggi le cosiddette previsioni del tempo si fanno in qualche modo al contrario. Si elabora un modello climatico, lo si confronta con i dati climatici e meteorologici di un evento certo, misurato, e si annota la sua adeguatezza, applicandolo poi a quanto potrebbe accadere in futuro.

Ma, anche se il clima è sempre cambiato, e continuerà a cambiare, anche se la complessità regna sovrana nella fisica teorica alla base delle determinazioni e delle previsioni complessive (non quelle relative al se pioverà domani!), anche se Milanković aveva intuito qualcosa all’inizio del XX secolo[5] non va certo accantonata la realtà dei fatti: che occorre prepararsi ad adattarsi al massiccio e veloce cambiamento climatico in atto dovuto soprattutto alla componente antropica che ha certamente accelerato un fenomeno probabilmente già in atto ma con tempi maggiori. Sempre che non sia troppo tardi per adattarsi, contromisure o meno.

La risonanza stocastica del gambero non ci aiuterebbe affatto.

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Nella figura precedente l’architettura d’insieme delle fibre nervose cerebrali dove vengono illustrati gli orientamenti delle stesse: rosso=sinistra-destra, verde=anteriore-posteriore, blu=trasversale al tronco cerebrale.


[1] «Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». Lev Tolstoj. “Anna Karenina”, 1877.

[2] Come direbbe Giorgio Parisi, Nobel per la fisica nel 2021 proprio per i suoi studi sui sistemi complessi.

[3] Per approfondire si veda la scheda sui Moti della Terra in Wikipedia.

[4] Le prime ricerche serie risalgono alla Seconda Guerra Mondiale, dove i vari reparti di Meteorologia e Climatologia delle Aeronautiche Militari cercavano di fare previsioni il più possibile precise, per ovvi motivi.

[5] Va doverosamente notato, tanto per complicare ancor di più il tutto, che la teoria di Milanković sui cambiamenti climatici non risulta tuttavia ancora perfezionata; in particolare la risposta climatica più grande è relativa a una scala temporale di 400 000 anni, ma gli effetti su questi periodi, per quanto riguarda le glaciazioni, sono apparentemente lievi e non concordano con le previsioni. Per giustificare questa discrepanza, sono chiamati in causa vari fenomeni.

 

martedì 13 giugno 2023

Se gli esseri umani si sono evoluti dalle scimmie, perché le scimmie esistono ancora?

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Ancora? Ancora questa domanda?

Pochi anni fa, nel 2017, un popolare attore comico statunitense ha
twittato una domanda, molto poco originale, che ha rivelato quanto poco capisca dell'evoluzione, e ciò nonostante sembra essere in ottima compagnia perché il suo tweet ha ottenuto quasi 50.000 "mi piace" e 13.000 retweet. Ovviamente molte persone che hanno reagito al post avrebbero voluto anche conoscere la risposta alla domanda: "Se ci siamo evoluti dalle scimmie, perché ci sono ancora le scimmie?". 

Tralasciando il notevole peso che il paese d’origine, gli Stati Uniti, possa avere sui motivi che generano domande come questa, o più in generale diffidenza, scetticismo e preconcetti sulla Teoria dell’Evoluzione (ne ho parlato ampiamente qui) la risposta breve è che "non ci siamo evoluti da nessuno degli animali che sono vivi oggi"; e ciò vale per qualsiasi animale o vegetale o batterio e persino per i virus. Vale a dire, tornando a noi, che gli esseri umani non si sono evoluti dai gorilla che vediamo oggi, o dagli scimpanzé di cui osserviamo stupiti le straordinarie pose e le espressioni umane. In altre parole è profondamente sbagliato pensare che le scimmie, antropomorfe o no, stiano per diventare umane perché si stanno evolvendo.

Charles Darwin, il magnifico, descrisse l'evoluzione come “discendenza con modificazioni” ovvero che, qualsiasi animale (o vegetale, batterio, virus…), e tra loro gli esseri umani, discendono da antenati comuni (e ora estinti) vissuti milioni di anni fa, in un processo noto anche come "discendenza comune". In altre parole milioni di anni fa esisteva una specie di primati che ha dato origine a linee di discendenza distinte che hanno portato da un lato agli esseri umani e dall’altro alle scimmie: in particolare la separazione per quel che ci riguarda è avvenuta tra 6,5 e 9,3 milioni di anni fa. Poi tutto è cambiato e ognuna delle specie si è adattata ai propri ambienti, a determinate circostanze, o a nicchie ecologiche specifiche.

Il denominatore comune è che tutti gli umani sono scimmie e, come tali, tutti gli umani sono imparentati con altre scimmie. E’ l’umiliazione che deriva da questo concetto che scatena domande come quella: condividiamo antenati non solo con le scimmie ma praticamente con tutto ciò che vive sulla Terra oggi; a partire dai primi procarioti, siamo tutti discendenti di una singola specie che ha vissuto in un passato così profondo da renderlo pressoché inconcepibile. Significa anche, ripeto, che gli esseri umani sono imparentati con balene, squali, alberi, lombrichi e batteri. E non solo.

Inoltre, in quel meraviglioso processo di bricolage (ne ho parlato qui e ancora qui) che fa parte dell’evoluzione, gran parte del materiale genetico che ci rende ciò che siamo è lo stesso materiale che rende gli altri animali ciò che sono: viene semplicemente distribuito in modo diverso.

L’evoluzione è stata, è, sarà 

Un altra profonda ignoranza, per lo più preconcetta, un malinteso comune, è quello che afferma che gli esseri umani non si stiano più evolvendo. In realtà qualsiasi organismo vivente continua ad evolversi, e noi umani non ne siamo esclusi. Né è lecito filtrare l’evoluzione attraverso una lente incentrata sull'uomo, non siamo l’espressione massima dell’evoluzione, né siamo o mai saremo la perfezione, il grado massimo: l'obiettivo dell'evoluzione non è diventare umani, e nemmeno una creatura che ora sembra più "primitiva" è sulla strada per diventare un giorno umana. Il concetto stesso di primitivo è applicato erroneamente perché richiama una comparazione con gli esseri umani che non ha senso dal punto di vista evolutivo. Non siamo dunque l'apice dell'evoluzione ed è sbagliato credere che tutto si stia evolvendo verso l'umanità. Non c’è scopo, disegno, tendenza, progresso inteso in senso umano, nell’evoluzione. E’ il condizionamento sociale che ci ha portato a pensare all’evoluzione come una sorta di miglioramento.

Per approfondire l’evoluzione umana consiglio una serie di brevi lezioni tenute da Telmo Pievani dell’Università di Padova. Qui la prima puntata.

Alberi ramificati

File:CollapsedtreeLabels-simplified.svgAlcuni ricercatori ritengono che sia necessario modificare il modo in cui visualizziamo l'evoluzione e i termini che usiamo per spiegarla. Un altro malinteso è che l'evoluzione sia un processo strettamente lineare, cioè si verifica in linea retta dal primitivo all'avanzato e ancora qui, la contrapposizione tra primitivo e avanzato, moderno, richiama concetti antropocentrici. E’ invece più accurato pensare all'evoluzione come a un processo di "ramificazione", quello che non ha caso in ambiente scientifico è definito come cladogenesi, la comparsa di un nuovo gruppo di organismi attraverso un processo di divergenza evolutiva da un antenato condiviso. In altre parole, gli eventi cladogenetici si verificano quando una specie si divide in due. Sono questi i momenti chiave dell'evoluzione.

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Ecco perché l’immagine più famosa del mondo che illustra l’evoluzione umana è completamente sbagliata.

Va comunque sottolineato che pensare l’evoluzione in termini lineari non è del tutto insensato: non c’è conflitto tra gli aspetti lineari e quelli ramificati dell’evoluzione perché ogni discendenza comune procede con linearità legittima che parte dalla divergenza, con relazioni ramificate, della differenziazione dei lignaggi.

Top-Down vs Bottom-Up

In un articolo del 2021 pubblicato su Science un gruppo di biologi presentarono due diversi approcci allo studio ed alla comprensione dell’evoluzione, in particolare quella umana: nel primo, con metodo Top-Down, dall’alto verso il basso, si parte molto opportunamente dall’analisi di scimmie antropomorfe viventi, come gli scimpanzè ad esempio, mentre quello dal basso verso l’alto, Bottom-Up si concentra sullo studio e sulla comparazione di fossili di scimmie per lo più estinte, a fornire informazioni fondamentali per la comprensione dell’evoluzione umana. La paleoantropologia è comunque, come tutti i rami della ricerca scientifica, in continuo work in progress, e quasi ogni giorni si aggiungono nuovi elementi, e per ottenere il quadro completo dell'evoluzione vanno esaminati entrambi gli approcci. Le specie di scimmie viventi sono specializzate, relitti di un gruppo molto più ampio di scimmie ora estinte, e quando consideriamo tutte le prove, cioè le scimmie e gli ominidi sia viventi che fossili, appare evidente che una storia evolutiva umana basata sulle poche specie di scimmie attualmente in vita manca di gran parte del quadro più ampio. Le scimmie fossili sono essenziali per ricostruire il punto di partenza, di divergenza, da cui si sono evoluti umani e scimpanzé.

Non a caso, la prova che ha retrodatato la presenza di Homo Sapiens in Europa da 40.000 a 54.000 anni fa, in contemporanea con H. Neanderthalensis, viene proprio dalla scoperta, in una grotta nel sud della Francia, di punte di freccia in selce contemporaneamente ad un dente di un fossile di scimmia. Gli esseri umani moderni vivevano accanto ai Neanderthal, qualcosa che prima di allora non era nemmeno lontanamente sospettato.

sabato 29 aprile 2023

Dopo tutto, sono solo credenze…

Premessa polemica

È l'evoluzione che ha creato dio e non dio che ha creato l'evoluzione. Con buona pace dei creazionisti e i cultori del disegno intelligente.

Religione e morale

Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno”. «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso».[1]

Chi non conosce la parabola del Buon Samaritano? Non tutti aiutano i bisognosi e viene spontaneo chiedersi come mai, tra gli uomini fondamentalmente tutti morali, ci siano trasgressori che evitano l’applicazione dell’altrettanto evangelica regola aurea «Ama il prossimo tuo come te stesso».

Ma torniamo su un terreno più scientifico, corroborato da dati misurabili.

Quando nelle università non esistevano i comitati etici gli studenti che le frequentavano venivano spesso utilizzati allo scopo di fornire materiale umano per ricerche sociologiche e psicologiche, spesso a loro insaputa. Due psicologi dell'università di Princeton[2], all'inizio degli anni Settanta, condussero un esperimento particolarmente brillante e interessante utilizzando, non a caso, un numeroso gruppo di studenti che frequentavano il Seminario Teologico. Convocati in un primo laboratorio, dovevano recarsi in un secondo laboratorio per tenere un discorso di qualche minuto sulla base di un testo loro assegnato. Lungo il percorso tra i due laboratori un attore, pagato dagli sperimentatori, simulava un evidente stato di difficoltà sdraiandosi sulla soglia di una porta, immobile, a capo chino e con gli occhi chiusi, e non appena uno studente gli passava vicino tossiva due volte e gemeva.

Furono stabilite due condizioni sperimentali: nella prima il 63% di loro si fermò per prestare qualche soccorso, nell’altra soltanto il 10%! Oltre che frequentare il seminario suddetto a metà di loro veniva detto che avrebbero dovuto tenere un discorso sul soccorso ai bisognosi. Ebbene, il tema su cui dovevano riflettere non influenzò per niente il loro comportamento: se erano nella prima condizione aiutavano il poveretto, se erano nella seconda non l’aiutavano, anzi, si registrarono persino casi di studenti che scavalcarono letteralmente l'attore pur di entrare nel secondo laboratorio, dove magari dovevano parlare proprio della parabola del Buon Samaritano!

Ma quali erano dunque le due condizioni? Nella prima lo sperimentatore diceva ai soggetti di prendersela comoda, che nel secondo laboratorio non era ancora arrivato nessuno e che avrebbero dovuto attendere qualche minuto. Nella seconda invece, diceva loro di fare in fretta, che erano in ritardo.

Insomma, un fattore secondario legato alla situazione come il tempo a disposizione determina il nostro comportamento morale: siamo Buoni Samaritani se abbiamo il tempo per esserlo, altrimenti, presi dai nostri impegni corriamo via senza nemmeno accorgerci di coloro i quali hanno bisogno d’aiuto, come il sacerdote e il levita presi dall’ansia di non arrivare in tempo a svolgere i loro impegni, magari un servizio religioso, o per parlare del soccorso ai bisognosi.

Ed ecco che appare l’insegnamento più importante della parabola: non basta meditare sulle norme morali o essere persone votate a Dio per comportarci caritatevolmente verso il prossimo.

La nostra specie possiede capacità di ragionamento morale che gli altri primati non possiedono. E solo nella nostra specie vengono impartiti insegnamenti, secolari e religiosi, per inculcare norme morali e per sanzionare chi le viola. Ma queste capacità di ragionamento e questi insegnamenti non sono fondati sul nulla, derivando da una origine comune e da uno sviluppo del comportamento morale: nell'apprendimento della differenza tra bene e male sia il maestro che il prete si basano su una predisposizione naturale al comportamento morale, una predisposizione che condividiamo con altre creature.

«Se Dio non esiste, tutto è permesso» fa dire Dostoevskij, e ancora, ad un altro personaggio «La coscienza! Che cosa è la coscienza? Sono io stesso che me la invento. Perché mai mi tortura? Per un’abitudine. Per un’universale abitudine del genere umano, vecchia di settemila anni. Liberiamocene, e saremo degli dei!», sostenendo e corroborando in tal modo l'utilità o l'indispensabilità della religione nel formare i sentimenti e le azioni morali e nel migliorare le società umane. Perché, come ha scritto Richard Dawkins, l'umanità, per essere etica e morale, avrebbe bisogno di una complessa ed irrazionale impalcatura qual è la religione e tutti i suoi riti?

Ma le credenze sovrannaturali, in particolare quelle religiose, comportano realmente vantaggi sociali? È vero che sono la base indispensabile del comportamento morale della giustizia? Che senza di esse non ci sarebbe vita sociale?

Iniziamo ad osservare che i credenti di varie religioni hanno la comprensibile tendenza a far coincidere i precetti della propria fede con la morale tout court, tendendo a far passare delle regole convenzionali per regole di carattere generale, che non hanno alcun valore comune tra le varie religioni. Un comportamento giudicato immorale in alcune religioni (mangiare un certo tipo di carne, accompagnarsi ad un cane o ad una donna nel tempio…) potrebbe essere del tutto legittimo per un’altra confessione.

La vita sociale è essenzialmente l’ambito della morale e quindi, paradossalmente un individuo che vivesse perfettamente isolato non avrebbe bisogno né di precetti morali né di norme sociali per regolare la sua condotta. Ne deriva che senza acquisizione delle credenze religiose, senza catechismo insomma, nessuna forma di comportamento morale, anche la più elementare, non dovrebbe manifestarsi. E se un comportamento moralmente etico ha lo scopo di aiutare o comunque non danneggiare gli altri in assenza di religione non dovrebbero apparire né l’empatia né l’altruismo, senza considerare che spesso la moralità, intesa come socialità cooperante, si rivela vera e praticata solo all’interno del proprio gruppo religioso.

Ma la scienza, come vedremo, ci racconta altro.

Innanzi tutto sappiamo che uno stesso sistema di credenze religiose può contenere posizioni morali contrastanti. Per millenni greci e romani hanno venerato divinità che non erano affatto dispensatrici di giustizia o modelli di virtù da seguire, interessati al proprio benessere più che a quello dell’uomo. Gli dèi lasciano il mondo, dicevano i pompeiani devastati dall’eruzione del Vesuvio; Apollo si indigna con Achille per lo scempio che fa del cadavere di Ettore mentre invece Era, Poseidone ed Atena, per il loro odio immortale verso i troiani, vorrebbero che lo scempio continuasse. Morale della favola: non tutti gli dèi hanno una morale.

E dopo tutto alcuni fatti ci dimostrano che creare dal nulla una religione non è poi così difficile, come nel caso della curiosa storia del “Culto del Cargo”[3].

E ancora, sappiamo bene come i sistemi di credenze religiose possano indurre i fedeli a comportarsi in modo ostile nei confronti di altri individui, soprattutto per quelli che professano altre fedi o che non ne professano affatto: violenza, crudeltà, riduzione in schiavitù, guerre, genocidi facilitati o giustificati da credenze religiose.

D’altra parte c’è chi ha sostenuto che i sistemi di credenze religiose, anche se non sistematicamente in grado di produrre comportamenti prosociali, possano favorirli di più rispetto a sistemi di credenze non religiosi. In altre parole, gli individui che professano una fede religiosa si comportano in modo moralmente superiore alle altre persone. E’ vero?

Prendiamo ad esempio gli Stati Uniti, il paese primo al mondo per presenza di comunità religiose e quello tra i meno secolarizzati in assoluto. Se è vero da una parte, in base a ricerche sociologiche, che i credenti sono più disposti a offrire il proprio tempo per aiutare gli altri, che contribuiscono maggiormente alle attività degli enti caritatevoli o che contribuiscono maggiormente a donare il sangue rispetto ai non credenti, è altrettanto vero che il più delle volte lo fanno limitatamente alla loro cerchia, spesso molto ristretta considerando la polverizzazione delle confessioni negli Stati Uniti dove addirittura chiunque può professarsi pastore e radunare fedeli nel proprio tempio.

A parte che non è chiaro il motivo per cui donare tempo e denaro (anche ad enti di tipo secolare) debba essere considerato un comportamento morale, concludere da questo che la morale e il senso civico siano favoriti dalle credenze religiose è sbagliato: soprattutto negli Stati Uniti, paese a forte prevalenza di comunità religiose, dove il contesto sociale in cui vivono credenti e non credenti è il più delle volte estremamente diverso e dove i non credenti sono letteralmente esclusi ed isolati dal resto della comunità. I non credenti negli Stati Uniti sono tra il 2 ed il 10 percento della popolazione ed è quindi ragionevole che i non credenti siano meno disposti ad offrire qualcosa ad una comunità che li isola, al punto che, ad esempio, moltissimi scienziati atei in pubblico dichiarano di non esserlo per evitare di essere esclusi da parte della maggioranza dei possibili sponsor per fondi di ricerca, dove sicuramente prevalgono i credenti. Non a caso sempre gli Stati Uniti sono il paese dove la stragrande maggioranza delle persone, secondi solo alla Turchia, non crede alla Teoria dell’Evoluzione credendo invece ad un dio creatore.

Gli Stati Uniti si sono inoltre rivelati utili a fornire indicazioni rilevanti circa i possibili effetti sociali dei sistemi di credenze religiose e secolari. Esiste un’impressionante serie di correlazioni positive tra tassi di omicidio, suicidio, aborto e gravidanza di minorenni e tasso di diffusione delle credenze religiose, in particolare quelle dualistiche, ovvero quelle visioni del mondo in cui coesistono Dio e il diavolo, il bene ed il male assoluti. Ancora gli Stati Uniti si rivelano in cima alla classifica che vede il 96% delle persone credere in Dio e ben il 76% credere nell’esistenza anche del diavolo. Nelle religioni non dualistiche, dove esiste solo Dio, o nei paesi dove il dualismo è meno marcato, la correlazione col tasso di omicidi è notevolmente minore, come in Svizzera dove l’84% delle persone crede in Dio ma solo il 32% nel diavolo, o ancora meno in Svezia (56% e 18% rispettivamente), paese ancor più secolarizzato[4].

Ovviamente va tenuta in debita considerazione anche la presenza di forti disuguaglianze socio-economiche oltre che l’ampia diffusione di credenze religiose di tipo dualistico; analoghi alti tassi di omicidio, di diffusione di credenze religiose dualistiche che si accompagnano a disuguaglianze socio-economiche si rilevano anche in paesi meno sviluppati, come le Filippine, il Sud Africa o la Repubblica Dominicana, ed è possibile, come sostengono alcuni sociologi, che le stesse credenze di tipo dualistico vadano attribuite alla presenza di forti disuguaglianze socio-economiche. In ogni caso, i dati contraddicono l'idea che i cittadini delle democrazie occidentali che professano una fede religiosa siano cittadini migliori dei non credenti.

E in Italia? Come abbiamo visto se la religione dovesse essere il motore primo di comportamenti morali, socialmente utili, questi dovrebbero inoltre concorrere, anche indirettamente, allo sviluppo del senso civico, all’aumentare del grado in cui la vita politica e sociale di una comunità che condivide ad esempio lo stesso territorio, avvicinandosi all’ideale della comunità civica, cioè alla comunità i cui membri partecipano attivamente alla vita pubblica, si considerano uguali fra loro e manifestano mutuo rispetto e fiducia anche quando le loro idee e i loro interessi differiscano.

Sono stati condotti studi sociologici anche in tal senso, ed in effetti lo sviluppo economico e istituzionale delle regioni italiane è maggiore dove è più forte il senso civico, misurato in base a indicatori come numero di associazioni presenti quali associazioni di volontariato o culturali, club sportivi, bande musicali, cooperative di consumo eccetera.

Il senso civico In Italia risulta correlato in modo estremamente negativo con tutte le misure di religiosità e clericalismo: quanto più alto è l'indice di clericalismo tanto minore e il senso civico. Regioni italiane in cui il senso civico è minore, come la Calabria e la Campania, sono quelle in cui è più alta la frequenza alla messa, più frequente il matrimonio religioso (contrapposto a quello civile), meno frequente il divorzio e in cui risulta più forte l'identità religiosa espressa nelle risposte ai questionari. E questa differenza emerge anche a livello individuale: a differenza dei non credenti, infatti, solo una minoranza dei cattolici praticanti italiani si interessa di politica e legge i quotidiani.

Eppure c'è stato un tempo in cui una misura di diffusione del sentimento religioso in Italia risultava correlata positivamente con l’impegno civico. Tra la fine della Seconda guerra mondiale e i primi anni Sessanta, gli iscritti all'Azione Cattolica, all'epoca la più importante associazione dei laici cattolici, erano molto più numerosi nelle regioni in cui il senso civico è maggiore. Insomma nella geografia sociale dell'epoca l'Azione Cattolica rappresentava la faccia civica del cattolicesimo italiano; negli ultimi decenni però questa associazione è quasi scomparsa e nell'Italia contemporanea la comunità civica è sostanzialmente una comunità secolare[5].

Trarre conclusioni assolute non sarebbe comunque corretto, soprattutto in ambito sociologico dove comparare paesi diversi od aree diverse dello stesso paese è complicato, visti i molti fattori esterni che possono influenzare i comportamenti dei singoli o la diffusione delle credenze religiose. Ma i risultati parlano chiaro: i cittadini che professano una fede religiosa non sono necessariamente migliori degli altri. Professare una fede religiosa non si accompagna a comportamenti moralmente superiori e anzi, in molti casi, è vero l’esatto contrario.

La legge morale dentro di me

Il comportamento morale si manifesta dunque soltanto dopo ed in funzione delle credenze religiose? Sembra proprio di no. O è piuttosto, come scriveva Kant nel suo famoso aforisma da cui ho estratto il titolo del paragrafo, che ci sia una sorta di moralità naturale innata e non trasmessa né appresa? Ancora una volta la ricerca scientifica, l’unica in grado di trattare qualsiasi argomento in maniera priva di pregiudizi, riesce ad affrontare anche la religione: e lo fa superando l’euristica della rappresentatività,[6] quel meccanismo intuitivo che spesso associa le cose ai loro effetti e che, come dice il famoso primatologo Frans de Waal, ci induce ne “l’errore di Beethoven”. Come si fa a credere che molte delle più belle musiche di Beethoven siano state composte in una delle più misere e sporche case di Vienna? Questi modelli sono delle scorciatoie mentali che mettiamo in atto spesso inconsciamente, applicati ai nostri giudizi in maniera intuitiva ed easy. Ma la scienza spesso è controintuitiva, parecchio. E se c’è qualcosa che risulta ancora oggi dopo oltre due secoli e mezzo estremamente controintuitivo e durissimo da accettare[7] è la Teoria dell’Evoluzione per selezione naturale, il darwinismo. Ancor più se interessa noi stessi, ed a maggior ragione se di noi stessi si occupa di mente e coscienza, morale ed etica incluse!

Dando per acquisito che per comportamento morale intendiamo quello che promuove o comunque non ostacola il benessere altrui le forme più elementari sono quindi quelle che vedono reagire di fronte al dolore altrui e che restituiscono favori ricevuti. Non esiste società umana in cui manchino l’empatia e l’altruismo: l’interesse emozionale nei confronti degli altri e lo scambio reciproco di favori. E la ricerca ha dimostrato che queste sono già presenti in bambini di uno o due anni, molto tempo prima che possa esser loro trasmessa una qualsiasi forma di credenza religiosa[8]. Bambini messi di fronte alle proprie madri, appositamente istruite, che esprimevano emozioni come la tristezza o il dolore (con pianti o grida) reagivano con reazioni consolatorie appropriate; nei bambini di due anni la reazione era sistematica e si verificava anche in assenza di sollecitazioni e con persone estranee. I bambini dimostrano di reagire alle emozioni altrui e di consolare chi è in difficoltà anche prima di avere acquisito credenze religiose.

In altre ricerche, condotte da un gruppo di ricercatori dell’università Yale[9], a bambini di 10 mesi sono state mostrati dei brevi filmati in cui degli oggetti, forme geometriche semplici, triangoli, quadrati, cerchietti, ma dotati di “occhietti”, si ostacolavano o si aiutavano a vicenda. I bambini, successivamente invitati a prendere uno degli oggetti, mostravano sempre di preferire l’oggetto che si era comportato in modo amichevole, mostrando stupore quando in altri filmati uno degli oggetti si dirige spontaneamente verso la forma meno amichevole. Per esser sicuri che i bambini esprimessero davvero un grado di valutazione del comportamento sociale all’oggetto da “aiutare” furono tolti gli occhietti e, in questo caso, i bambini sceglievano per metà l’oggetto “esserino” aiutante e per metà quello ostacolante. Insomma i piccoli umani manifestano molto precocemente la capacità di valutare in modo diverso gli attori sociali, in funzione del loro comportamento verso terzi, preferendo coloro che aiutano rispetto a coloro che ostacolano e attribuendo anche agli altri le loro stesse preferenze. Inoltre manifestano preferenze diverse anche quando non conoscono gli attori in gioco e non subiscono conseguenze dirette dalle azioni di questi ultimi. In altre parole, già a 10 mesi i bambini sembrano capaci di formulare giudizi che possiedono almeno una delle caratteristiche essenziali dei giudizi morali veri e propri: sono disinteressati. I bambini più grandi hanno certamente capacità di giudizio morale più sofisticate. Tuttavia questi risultati dimostrano che alcuni fondamenti del concetto di giusto e sbagliato non hanno bisogno di essere insegnati esplicitamente dagli adulti e, men che meno, da adulti intenti a impartire un qualche insegnamento religioso.

E gli animali? Negli stessi esperimenti condotti dalle mamme che fingevano tristezza o dolore si poteva riscontrare come gli animali sociali di casa che assistevano a quelle manifestazioni di disagio cercavano di fare qualcosa, come ad esempio girare attorno al padrone in difficoltà. Questo risultato ha in questo caso un valore puramente aneddotico ma è ormai ampiamente dimostrato che gli animali sociali reagiscono alle reazioni altrui, con comportamenti specifici sia tra elementi della stessa specie che con quelli di altre specie.

E gli animali più prossimi al genere umano in termini evolutivi? Da studi condotti su moltissimi Primati, soprattutto piccole scimmie e scimmie antropomorfe[10] (oranghi, gorilla, scimpanzè e bonobi), sono emersi risultati sorprendenti e non inattesi da parte dei primatologi più attenti e degli studiosi di sociobiologia.

Una delle scoperte più drammatiche è stata quella che riguarda i macachi, che possono rifiutarsi di mangiare per giorni interi, fino a morire, se la loro alimentazione comporta la sofferenza di un altro macaco. In un lavoro che oggi non sarebbe più permesso, dato il maggior rigore delle norme attuali per la protezione degli animali, i macachi venivano addestrati a tirare una catenella per ottenere del cibo. Non appena queste scimmie si accorgevano che nel momento in cui tiravano la catenella veniva somministrata una scossa elettrica ad un altro macaco, smettevano immediatamente, rifiutandosi di continuare fino a lasciarsi morire letteralmente di fame, pur di evitare di infliggere dolore a un altro individuo. Le fortissime relazioni sociali presenti nei gruppi di macachi sono alla base di questo comportamento: l’inibizione ad agire e quindi a fare del male risultava ancora più marcata quando la vittima delle scosse era un individuo noto nel gruppo.

Si potrebbe obiettare che questo non dimostra la presenza di reale empatia, forse gli altri erano semplicemente disturbati dalle urla di dolore dell’individuo colpito dalle scosse, ma ricerche recenti hanno fugato qualsiasi dubbio con numerosi episodi documentati, soprattutto tra le scimmie antropomorfe che non smettono di sorprenderci.

Ancora Frans de Waal racconta di un bonobo femmina di uno zoo inglese che un giorno prese uno storno. Incitato dal guardiano a lasciarlo andare l’animale prese con molta cura l’uccellino distendendogli le ali e lanciandolo al di là della barriera del suo recinto. Purtroppo cadde poco lontano e il bonobo lo sorvegliò a lungo per proteggerlo dalla curiosità di un altro bonobo.

Le scimmie antropomorfe sono in grado di esercitare un comportamento di aiuto diretto verso uno specifico individuo, addirittura in questo caso di un’altra specie e, a questo punto, molti di voi ricorderanno l’episodio del bambino caduto nell’area dei gorilla in un altro zoo e protetto dall’intervento di uno di questi a proteggerlo dagli altri animali incuriositi.

Oltre a necessitare di reazioni emotive automatiche sotto forma di risposte motorie e involontarie (cambiamenti nel battito cardiaco, espressioni facciali) queste azioni richiedono anche la capacità cognitiva di capire le ragioni della sofferenza e del disagio altrui. Ma queste azioni si verificano solo come soccorso ad individui in evidente stato di difficoltà? Pare proprio di no.

In alcune ricerche effettuate presso l’istituto Max Planck[11] si sono confrontate le reazioni e le azioni di scimpanzè e bambini di 18 mesi nei confronti di persone, a loro non familiari, che non riuscivano a prendere oggetti per loro importanti: per esempio a queste persone era stato sottratto un bastone da parte di un altro individuo che lo aveva collocato fuori portata dalle prime ma raggiungibile per i bambini o per gli scimpanzè. L’aiuto strumentale si manifesta quindi anche nei confronti di un individuo che non riesce a raggiungere il suo scopo. E, qui sta il punto, siccome compare molto presto sia negli essere umani che negli scimpanzé, è probabile che fosse presente anche negli ultimi antenati comuni di queste due specie.

Empatia e altruismo

L’empatia è un'altra forma di comportamento presente nelle scimmie antropomorfe, e in antitesi all’opportunismo che spesso dimostrano gli uomini mostrando empatia nei confronti dei vincitori di uno scontro, negli scimpanzè accade spesso che un individuo che non ha partecipato allo scontro tra due altri individui intervenga alla fine per rassicurare l'individuo sconfitto, mettendo un braccio sulle spalle di quest'ultimo. La ragione di questi comportamenti non è del tutto chiara, dato che chi li mette in atto non ha interessi personali da difendere, non essendo una delle due parti coinvolte nello scontro, ed è chiaro che si tratta di comportamenti volti a ridurre il disagio e la sofferenza altrui. In un'altra ricerca di Frans de Waal si è infatti mostrato che i tentativi di consolazione vengono indirizzati più spesso verso gli aggrediti che verso gli aggressori e che si verificano più spesso nel caso di aggressione violenta che nei casi di aggressione lieve. Insomma il comportamento dei primati non umani presenta vari aspetti delle capacità empatiche che molti attribuiscono unicamente alla specie umana; è presente una vera e propria empatia cognitiva che consiste nel valutare le ragioni delle emozioni degli altri e che consente di aiutare consolare chi è in difficoltà o nel dolore.

Conosciamo la pratica del grooming[12], letteralmente spidocchiamento, e sappiamo anche che è la forma più comune di comportamento prosociale in cui la scimmia che lo attua cerca con cura e poi elimina gli eventuali parassiti che si nascondono tra i peli di un’altra scimmia. E questa pratica ha fornito le prove della presenza di forme di reciprocità nel comportamento dei primati non umani, in cui chi riceve il favore tende poi a ricambiarlo soprattutto nei confronti dell’individuo da cui lo ha ricevuto.

In un famoso esperimento sul campo[13] una coppia di etologi ha dimostrato la tendenza a restituire il favore del grooming nei cercopitechi verdi[14], piccole scimmie dell’Africa Orientale. Se ad esempio l’individuo A spulciava B, in un arco di tempo tra i 30 ed i 90 minuti dopo la fine della pulizia, non appena A usciva dal campo visivo di B, lo sperimentatore faceva partire le vocalizzazioni di A da un registratore precedentemente nascosto in un cespuglio, registrate in precedenza mentre A cercava l’aiuto da parte di qualche altra scimmia. Ebbene, la scimmia che reagiva più intensamente era proprio B, con reazioni che riguardavano scimmie non imparentate tra loro dimostrando un vero e proprio altruismo reciproco e non un caso di selezione di parentela (la tendenza a favorire la sopravvivenza di individui che portano parte dei propri geni). Fu inoltre dimostrato che gli individui a cui era stato fatto il grooming ricambiavano in modo sostanziale il beneficio ricevuto permettendo ad esempio all’individuo A di prendere una parte del cibo di B senza che questi reagisca; e va fatto notare che nel caso di qualsiasi altro individuo diverso da A la reazione sarebbe stata immediata e violenta.

Per quanto riguarda gli scimpanzé, le cui relazioni sociali sono di ordine decisamente più complesso che non quelle dei cercopitechi, lo scambio di cibo e il grooming rappresentano l'esempio di altruismo reciproco più elaborato sul piano cognitivo che mai sia stato documentato in animali non umani. Per poter scambiare adeguatamente il beneficio ricevuto gli scimpanzé devono memorizzarlo e in un momento successivo restituirlo ad uno specifico individuo elaborando un atteggiamento positivo verso quest'ultimo: noi esseri umani diremmo che devono provare gratitudine nei suoi confronti.

Anche se la reciprocità può esistere al di fuori della moralità non esiste moralità senza reciprocità, e in una sorta di quid pro quo[15] il primo passo nella direzione della regola aurea citata all’inizio è stato compiuto da creature che hanno iniziato a seguire la norma di reciprocità «Fai come ha fatto l’altro, e aspettati che l’altro faccia come hai fatto tu.». E siamo tornati alla parabola del Buon Samaritano da cui siamo partiti.

Tutto questo senza divinità, regole preimpostate e religioni.

Letture consigliate:

Frans de Waal, “Naturalmente buoni. Il bene e il male nell'uomo e in altri animali”. Garzanti, 2001.
Richard Dawkins, “L’illusione di Dio (the God delusion)”, Mondadori, 2006.
Piergiorgio Odifreddi, “Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici)”. Longanesi, 2007.
Vittorio Girotto, Telmo Pievani, Giorgio Vallortigara, “Nati per credere”. Codice Edizioni, 2016.


[1] Vangelo secondo Luca (10, 25-37)
[2] Darley e Batson. 1973
[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Culto_del_cargo
[4] Paul. 2005
[5] Putnam. 1993
[6] https://giuri.elearning.unipd.it/pluginfile.php/30715/mod_resource/content/1/Euristiche.pdf
[7] http://uncinquantennequalunque.blogspot.com/2022/12/laccettazione-della-teoria.html
[8] Zahn-Waxler. 1992
[9] Bloom. 2007
[10] https://it.wikipedia.org/wiki/Hominoidea
[11] Warneken e Tomasello. 2005
[12] https://it.wikipedia.org/wiki/Tolettatura
[13] Seyfarth e Cheney. 1984
[14] https://it.wikipedia.org/wiki/Chlorocebus_pygerythrus
[15] Forma anglosassone del più noto do ut des