domenica 24 aprile 2011

L'Aquila stuprata


Poco meno di un anno fa passavo per l'Aquila e quanto vidi l'ho già commentato allora: qui.
Ieri, 23 aprile 2011, torno su quelle stesse strade per recarmi ancora una volta verso il bellissimo Altopiano delle Rocche e percorro ancora una volta, via 20 settembre, neanche 2 km di desolazione, ed è solo quanto visibile in superficie.
La cosa che mi ha colpito, come nel finale di Easy Rider, come un pugno allo stomaco suscitando in me un misto di rabbia e profonda tristezza è che è passato UN ALTRO ANNO, E NULLA E' CAMBIATO.

E passandoci mi sentivo, vergognandome, come quei rari turisti del macabro che incroci anche lì, anche su via 20 settembre, soprattutto davanti alla tristemente nota Casa dello Studente.

Lungo quel viale le transenne giacciono immobili e non arrugginiscono solo perché in alluminio zincato. Le palazzine del sacco edilizio de l'Aquila degli anni 70, che siano le case popolari o moderne palazzine in cortina, si allineano l'una accanto all'altra, vetri e serrande ancora alzate o divelte da quella notte. Le tamponature esplose a macchia di leopardo, i pilastri aggrediti ma tutto sommato ancora in piedi. Il tutto interrotto ogni tanto da qualche palazzina d'epoca. Su qualche edificio, soprattutto quelli con le vestigia tipiche dei palazzotti signorili e d'annata, cartelli di aziende di ristrutturazione private pagate di tasca propria dai rispettivi proprietari.
Ma mi chiedo: anche ristrutturando e consolidando a rendere di nuovo agibile la propria casa CHI andrà a vivere in un deserto testimone di desolazione e dolore?

E quanto si vede lungo via 20 settembre è solo un anticipo di quanto c'è nelle sue traverse verso monte, chiuse da transennature più o meno definitive, lasciando il passo a chi, graziato dal mistero della propagazione delle onde sismiche, può ancora abitare in case stabili circondato da edifici transennati ed inagibili. In questo viale dove le pareti dei suoi palazzi ricordano così violentemente Beirut degli anni '80 o la Sarajevo dei '90.

La strada è ancora a senso unico a causa di un cedimento più o meno a metà strada: basterebbe una ruspa ed una squadra di operai a sistemarlo e riattivare la circolazione a doppio senso senza costringere residenti e non a lunghi giri viziosi e trafficati. Ma queste sono, avrebbe detto Totò, pinzillacchere...

Un anno fa era passato poco più di un anno e la scusa che c'era ben altro da fare poteva a stento reggere ma adesso un altro anno è trascorso e tutto è immobile. La desolata e rabbiosamente sconsolante immagine di quella benna ferma lì da due anni!!! Chi ne sta pagando il costosissimo noleggio giornaliero? E perchè?

Condividendo un caffè con lui ho parlato a lungo con un cordiale (come tutti gli aquilani) barman del bar dello storico Grand Hotel del Parco a chiedergli e chiedersi il perché gli aquilani non si siano ancora armati a tirar giù dai loro comodi letti i responsabili dell'immobilità, menando sprangate a destra e sinistra, quasi alla cieca a scovare, magari per caso, chi debba pagare. L'aquilano è mite, è paziente, è montanaro e vive circondato da montagne: non sa guardare oltre mi diceva. O forse i più, i graziati, gli indenni, non sanno guardare oltre le loro miserabili tasche fregandosene altamente delle migliaia che vivevano e lavoravano intorno a questo tratto di strada che è solo un frammento del dramma. E gli chiedevo come mai non fossero sul piede di guerra, inutile retorica la mia.

Ho promesso che ne avrei parlato, l'avrei fatto comunque, perché questa è cronaca che non fa più notizia, se non localmente e senza peso. E ripenso agli aquilani che vennero a protestare a Roma presi a manganellate dai poliziotti governativi.

E il pensiero che mi sovviene accomuna gli aquilani ai napoletani, anche loro tutto sommato miti (o "muti e rassegnati" come si diceva alle spine in qualche caserma...) e rassegnati di fronte alle tonnellate di spazzatura che da almeno un decennio li perseguita. E anche loro ancora non si sono armati e credo che, come gli abruzzesi, non lo faranno mai. Dante metteva gli ignavi all'inferno ed a questo pensavo davanti a quel caffè: a tutti coloro i quali non si sono mai schierati.

E proprio in questi giorni un'altra scusa al ritardo è stata trovata: il Durc, il documento (certificazioni fiscali, contributive...) che viene chiesto alle imprese prima di affidare loro lavori in base a gare d'appalto pubbliche. Ora si richiede via Internet ed a quanto pare la colpa è proprio della rete, della lentezza della burocrazia italiana che in qualche modo riesce ad ingolfare persino macchine velocissime che per loro natura lavorano 24 ore su 24. Ma per favore. L'azienda per cui lavoro produce spesso questo documento e lo fa nel giro di pochi minuti.

E poi ritardo di cosa? Lavori in ritardo significa che tutto sommato sono partiti ma che ci vorrà più tempo del previsto: qui nulla è partito e tutto è fermo con le quattro frecce come direbbe il ciclista di Striscia la Notizia.

E non si dica che la responsabilità è dei soliti meridionali che aspettano la manna dal cielo, l'assistenzialismo dovuto e preteso; non si citino, e basta!, i famosi condominii di Gemona ricostruiti in un batter d'occhio perché qui non si tratta di poche palazzine ma del tessuto urbano di un'intera parte di una città, un capoluogo di provincia, di regione, il solo tratto da me percorso possiede più palazzine disastrate che l'intero complesso di quelle friulane del 1976.

Poco più di un anno fa scrivevo che l'Aquila muore, che l'Aquila è morta. Devo tragicamente correggere il tiro. Prima di morire sarà stata anche stuprata.





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