sabato 13 dicembre 2014

Povero Keplero!

13-12-2014 20-32-32

I anno del liceo linguistico. Compito a casa di scienze (geografia generale pseudo scienze della Terra).

"Calcola la distanza media (in metri) di Marte dal Sole usando i dati riportati:
(usa T2 = K d^3)
–> elevato alla 3 scritto proprio così… ^3 … e quel T2? sarà forse invece, come l’espressione recita, T2?
T1 tempo di rivoluzione della Terra 365 d
...proprio così, d per days...forse perché è un linguistico? :-)     
T2 tempo di rivoluzione di Marte 780 d   
Distanza media della terra dal sole 1 UA
(sapranno cos'è?)
1,496 x 10 ^ 11 m" idem…^11

Nessuno come facilmente prevedibile [da me], ed ovviamente neanche mia nipote, ha saputo non pretendo risolverlo, ma capire da che parte cominciare! La professoressa, questa sprovveduta, avrà pensato bene di spiattellare ai ragazzini 14enni e con sicuramente una preparazione di matematica lacunosa, le tre leggi di Keplero e pretendere risultati: ed è la terza legge a cui fa riferimento quel "K" e quel "usa T2=K d^3).

Ora, ammesso che qualcuno sia arrivato al concetto di estrarre K –approssimato ovviamente- usando i dati forniti per la Terra si sarà ritrovato con un numero piccolissimo (10-19), sarà riuscito a gestirlo? E qualcuno avrà detto loro che i tempi devono essere trasformati in secondi? E ancora, una volta inserito a numeratore un numero seguito da 11 zeri ma anche fosse stato qualcosa elevato alla 11ma, ed a denominatore quello alla -19 sarà riuscito a capire che doveva estrarne la radice cubica? E come visto che le più sofisticate calcolatrici neanche ce l'hanno la cubica? Ma anche l’avessero a trovarla in casa una calcolatrice del genere! Io ho usato Excel per fare due conti, ma i ragazzini lo sanno che devono elevare alla 1/3 che è come estrarre radice cubica? Ma non credo sappiano neanche usarlo Excel per queste cose. Forse neanche sanno cos’è un foglio di calcolo!


Immagino lo studente modello che ci ha provato con tutte le sue forze sudare come Fantozzi al concorso per ragioniere!

E come sempre si prosegue col solito inutile nozionismo chiedendo ai ragazzini di applicare matematica a vuoto e sicuramente non sanno neanche farlo.
Anziché concentrarsi sul concetto, sulla meraviglia della storia di questa scoperta che ancora oggi consente di mandare sonde sulle comete, sul dato essenziale, facendo capire loro che vuol dire in termini concreti avere il sole a 150 milioni di km e soprattutto capire quanto sia grande rispetto a noi e quanto infinitesima rispetto all'universo stesso. Cosa significhi percorrere aree uguali in tempi uguali, la trascurabilità della massa del pianeta rispetto a quella della stella, le conseguenze dirette ed indirette! Questo devi far capire ad un ragazzino di 14 anni!

Troppo faticoso? Mostra loro un video sul sistema solare preso dalla rete, ce ne sono a dozzine, fatti benissimo, falli godere con gli occhi e gioire nel cuore per questo granello di sabbia cosmica e tu, professoressa, taci!

Per le distanze basta mettere su Google "distanza sole marte" e lasciare i calcoli sterili a quando saranno più grandi e forse, avranno capito davvero perché il mondo è matematico.

13-12-2014 20-20-17PS) il compito, qui a fianco, gliel'ho risolto io ma ho chiesto a mia nipote di non portarlo a scuola perché per quanto abbia passato un'ora e mezzo a spiegarle ogni concetto molte cose le sono sfuggite, tranne l'essenziale ovviamente. C’è infine un metodo più immediato e facile che applica la proprietà transitiva: se a/b=k e k=c/d allora a/b=c/d da cui ricavare qualsiasi termine noti gli altri 3.

PPS) il valore del periodo di rivoluzione fornito per Marte è errato: in realtà è di 687 giorni. Mi sono fidato senza controllare o forse la nipote ha capito male!

lunedì 20 ottobre 2014

Quando un’immagine VALEVA più di mille parole

 

Yashica_FX-3

Per quasi 40 anni ho fatto foto, ma soprattutto diapositive, anche molto belle a detta di chi le osservava, e per tutto quel lungo periodo con una magnifica Yashica FX3 rigorosamente "manuale". Partendo da zero, con il solo manuale di istruzioni a corredo della giapponese, molto ben fatto, che ti spiegava concetti come la profondità di campo o la sottoesposizione…
Una Yashica proprio come questa in foto, con la pelle in rosso cambiata dopo che quella originale si era screpolata!
E col tempo ho arricchito, con non poca spesa, il 50 mm a corredo della macchinetta con una serie di obiettivi faticosamente comprati nel corso degli anni. Un 80-200, 28-135 ritenuto pressoché universale vista l’ampia gamma di usi, un Fish Eye e persino una lente per macrofotografie.

E poi come tanti sono anch'io passato al digitale, per praticità soprattutto e con una piccola compatta visto che non mi sembrava il caso di portarmi ancora a tracolla un paio di chili di attrezzatura! Per carità, nulla da dire. Semplicissima, scatta e vai e quella che scelsi come prima già nel 2008 addirittura in grado di essere utilizzata in modalità di programmazione, quasi manuale. Quella attualmente in mio possesso, sempre compatta, con tante di quelle funzioni da farla sembrare più un complesso videogioco che non una macchinetta fotografica. Ma alla fine la uso sempre in automatico.

Peccato però che la proliferazione del digitale ha introdotto, secondo me, parecchi elementi di disturbo ed ha rovinato quella parte romantica se volete ma indiscutibilmente di valore: quella "poesia" che aleggiava intorno al concetto di fotografia e soprattutto del fotografare.

L’attesa.

Un tempo una volta completato un rullino, magari in tempi non vacanzieri dopo mesi dall'acquisto, si portava dal fotografo e si attendeva come minimo qualche giorno per avere i risultati stampati: e nel frattempo ci si chiedeva come saranno venute? E quella foto scattata quella sera al tramonto? Avrò calibrato bene la luce? E quell’altra del bimbo in corsa, avrò azzeccato i tempi corretti? E poi col tempo imparavo a fidarmi del mio istinto, a regolare tempo ed apertura a naso, magari con un minimo aiuto che veniva dall’esposimetro incorporato nella Yashica con i suoi + e – rossi ed il pallino verde di vai tranquillo e preoccupati di quel che vedi. Per non parlava dei piccoli miracoli che l’ottico di fiducia faceva nel correggerti magari qualche foto sotto o sovraesposta.

Il dettaglio.

Quanto tempo a volte passava tra l’inquadratura e lo scatto? La ricerca del particolare in quell’angolino di mondo isolato che era l’oculare del TTL; ed il trucco insegnatomi da un mio zio di tenere aperto anche l’altro occhio a correlare il mondo rigorosamente analogico con le informazioni inviate alla retina che stava invece guardando un mondo filtrato da un complesso sistema di lenti. E quante volte ho premuto l’otturatore a vuoto senza sentire il click dopo tanta preparazione…solo perché avevo dimenticato di ricaricare! E le foto notturne? Le pose lunghe? Che meraviglia attendere l’istante per quel click in differita con l’autoscatto dopo una lunga apertura. E raramente, ma molto raramente, si ripeteva lo scatto. Troppo costoso a volte fare fotografie per permettersi di sprecare una posa.

La sorpresa.

E dopo aver magari atteso a lungo arrivare a casa e mettersi a sfogliare le foto fresche di stampa, da solo od insieme ai tuoi cari. A volte almeno un centinaio di ritorno da una vacanza. Assaporarne con gli occhi i toni, i colori, i dettagli. Fare delle piccole critiche e ricordarsi di far meglio la prossima volta. Che peccato quel panorama, non avevo notato quella foschia! Fare attenzione a mantenerne l’ordine cronologico, scegliere le migliori (tutte!) da inserire in album di raccolta da conservare e catalogare.

Tutto questo è andato perduto come lacrime nella pioggia avrebbe detto ancora una volta “Roy Batty/Rutger Hauer”.

Il digitale ha portato la fotografia ovunque e dovunque. Ha volgarizzato la cosa in tutti quei sensi che porta con sé il termine relativo al diffondere a livello popolare qualcosa. Niente più attese, sorprese, attenzione ai dettagli: scatta e vai, guardala una volta nel display per assicurarsi che sia venuta, riguardala magari nel PC quando la scarichi e poi non la riguarderai forse se non un’altra volta se va bene. E quelle orribili bande nere ai lati delle pose in verticale? E che ne fa più di foto verticali? Che peccato.

E niente più album da sfogliare ma, lasciatemi dire, sterili raccolte che scorrono spesso tristemente sul display di un televisore che dev’essere enorme per catturare l’attenzione su dettagli inutili e perdere l’insieme. Quelle proiezioni poi che costringono all’attenzione quanto un tempo le odiose sale buie costringevano all’attenzione annoiati ospiti di altrettanto noiose proiezioni di diapositive! Un album invece e la sua capacità di poterlo sfogliare con attenzione vera o fingendola accontentando l’ospite di turno.

Certo il digitale è comodo, come negarlo? Io stesso ne sono un fruitore spesso compulsivo con centinaia di scatti per ogni vacanza tanto poi cancello e non cancelli mai nulla se non quelle in cui tua moglie grida d’esser venuta orribile e se non la cancelli saranno guai! E se così non fosse quanta fatica avrei fatto per inserire al volo questo paio di immagini in questo post?

Ed ora che la tecnologia che fino a qualche anno fa era considerata sofisticata per una compatta è a disposizione sugli smartphone non occorre più neanche andare a cercarsi un tipo di macchinetta particolare. Basta un telefono, è tutto lì.

 

B0ZWUACIEAAs6bA

Ma se penso alla moda dei selfie, e soprattutto a certi selfie, allora mi scatta una molla fetente e parecchio bastarda che mi porta a pensare che quella della diffusione di massa di certe tecnologie è controproducente, con degli effetti collaterali fastidiosi…più o meno come il suffragio universale insomma!

E così l’antico adagio che recitava come un’immagine valesse più di mille parole ha perso completamente significato in questo mondo iperfotografato con immagini ripetitive e noiose fino alla nausea; purtroppo gli autori molto spesso oltre a tempestarci di inutili immagini ci aggiungono anche le mille parole, inutili e per lo più sbagliate in questo mondo che oltre tutto è un mondo parolaio con commenti a vanvera sulle già stupide immagini.

Aneddoto. Ricordo la prima volta che un amico mi chiese di fargli una foto con una delle prime “superautomatiche”: non erano ancora compatte ma già i display ad LCD e le prime impostazioni “auto” apparivano. Lo incontrai qualche settimana dopo e mi raccontò che di tutte le foto scattate con quel rullino l’unica mossa era quella che gli avevo fatto io!

domenica 28 settembre 2014

Teorie del caos. Il fallimento di un amico e Giulio Tremonti

157208-thumb-full-corrado_guzzanti_tremonti_spot_cPremetto che non sono tra quelli che urlavano di abolire Equitalia, che sbraitano di blitz demolitori nelle sedi dell’Agenzia delle Entrate o che inneggiano alla persecuzione e tanto meno che sciorinano le statistiche dei suicidi di imprenditori piccoli e grandi. Ma questa storia mi tocca da vicino, ed ha toccato persone a me care su cui, per quel che valga, garantisco personalmente la loro integrità morale e la loro onestà.

 

 

Difficile essere brevi, ci proverò ma spiegare come l’Agenzia delle Entrate ed Equitalia riescano a mettere in ginocchio chiunque non è semplicissimo.

Ovvio che alla fine giustificare un certo tipo di reazione politica e l’aver abbracciato con fanatismo un certo tipo di movimento politico è più che comprensibile

Da questo momento è il mio amico che racconta e le opinioni espresse sono le sue, condivisibili dal sottoscritto o meno che siano.

Nel 2007 fu avviata un’attività commerciale al pubblico ed in grande stile; frutto di grandi e sostanziosi investimenti derivati dalla vendita di case e seguiti da un trasferimento di un’intera famiglia.

Appena all’inizio nel 2008 arriva la prima visita fiscale, quando non ancora obbligati né agli studi di settore né alla presentazione del primo bilancio. In quell’occasione si voleva, indebitamente, affibbiare una multa di diverse migliaia di euro perché il padre di uno dei titolari, nell’ufficio privato di questi, stava giocando al computer e perché un altro titolare stava innaffiando le piante…attività illecita in quel tipo di struttura. La multa fu sospesa. Era una prima minaccia forse?

Nel 2009 arriva la seconda visita fiscale e nel frattempo erano passati anche persone dell’Ispettorato del Lavoro e la Guardia di Finanza un paio di volte.

Questa volta arriva il verbale. 45.000 €. Motivo? Oltre a quisquilie varie veniva contestato il credito IVA perché, affermavano senza uno straccio di prova, che le attività di investimento effettuato per l’acquisto di attrezzature e macchinari vari provenisse da fondi neri e da attività in nero. La realtà è che quei fondi venivano dalle vendite immobiliari suddette e tutte con assegni la cui tracciabilità era registrata e facilmente riscontrabile. La verbalizzazione dei reati fiscali era, se non fosse stata drammatica la conseguenza, una farsa ma come noto, in Italia, l’onere della prova di innocenza è a carico dell’accusato. Bene, si fa ricorso no?

Qui arriva il bello. Per fare ricorso occorre anticipare comunque 1/3 della sanzione e pagare l’avvocato tributarista che va, sempre, a tariffa fissa: 1/10 della sanzione. L’udienza in commissione tributaria? Nel 2015 nei casi migliori.

Peccato che nel frattempo arrivano altre tre cartelle esattoriali per gli anni 2008, 2009 e 2010 per un totale di 95.000 €, tutte legate alla prima che nonostante bloccata ed in attesa della sentenza dei giudici, si gonfia a dismisura. Ricorso? Idem come sopra: 1/3 di anticipo ed 1/10 all’avvocato e aspettare un tempo indefinito. Ma anche qualora vincessi non pensiate che ci sia restituzione del maltolto nell’immediato, li tengono in conto per “futuri controlli” e se tutto va bene rivedi qualcosa nel 2025. E nel frattempo come pago gli operai? E devi pagare l’avvocato le cui spese non saranno mai rimborsate.

Esiste il patteggiamento si dirà. Il sistema sa benissimo che anche se vinci un ricorso perdi soldi. Allora, seduti a tavolino, ci si accorda sempre per una cifra inferiore alla sanzione e vicina a quanto si andrebbe a pagare anticipandolo in caso di ricorso (il famoso 1/3 + 1/10 di cui sopra). Ma tanto se patteggi e magari rateizzi dopo un paio d’anni tornano alla carica.

Il sistema ed il patteggiamento favoriscono l’evasione e gli sta bene così. Gli evasori evadono sistematicamente 100 ed ogni tanto si accordano per pagarne 20. L’Agenzia delle Entrate si ritiene soddisfatta ed Equitalia incassa percentuali sul recupero del credito.

La spada di Damocle che ci pende sulla testa dal 2008 e che nonostante questo ci ha fatto andare avanti sempre col sorriso alla fine è caduta. Risultato finale comunque è stata la chiusura dell’attività. Tutti disoccupati, imprenditori, impiegati, operai e collaboratori. Nessun suicidio.

Riprendo e concludo.

Siccome l’attività era una Srl anche il sistema se la prenderà in quel posto e non beccherà un soldo. Macchinare ed attrezzature non sono sequestrati e sono vendibili nella speranza che qualcuno voglia e possa rilevare l’attività.

Cosa c’entra Tremonti in tutto questo? Molte delle norme applicate per sanzionare questo mio amico e costringerlo a chiudere dopo quasi 10 anni di attività riconosciuta ed apprezzata in tutta la zona risalgono a provvedimenti legislativi emanati quando occupava la poltrona del MEF a via XX settembre a Roma. Quando era ministro dei governi che sbandieravano “basta tasse” ad ogni elezione salvo poi fottere in maniera bipartizan sia i propri elettori che gli altri, ignavi compresi. Non che gli altri governi abbiano tentato di fare diversamente sia chiaro.

Che lavoro fa Tremonti? Mica fa il ministro. Fa il tributarista (lo ha persino insegnato all’università!) ed è a capo di una rete di studi legali quali quelli a cui si è rivolto il mio amico. E come campano questi studi? Fatto 2+2? Basta creare un meccanismo che faccia girare soldi per una certa categoria e prima o poi, appartenendo alla medesima, quei soldi arrivano.

Nel frattempo gli evasori veri prosperano tanto al massimo, qualche condono arriva prima o poi: uno per tutti lo scudo fiscale del 2009 inventato da Berlusconi e compagnia bella. Un bel 5% di ammenda, anonimato ed impunibilità.

C’entra, c’entra.

martedì 9 settembre 2014

Incompetenza consapevole

download

So di non sapere. Questa era la massima competenza si Socrate, quasi 2500 anni fa.

In un determinato ambito o campo di azione essere incompetenti significa semplicemente essere mancanti di quanto occorre, in termini di conoscenze ed abilità, a praticare un compito od un tipo di attività, lavorativa o meno; gli anglosassoni tagliano corto definendo unskilled la persona che si trovi in questo stato tant’è che da qualche anno nella ricerca di lavoro continuamente appare il termine skill (capacità, perizia, abilità) sia da parte di chi offre che di chi cerca lavoro.

Nell’era di Internet e soprattutto con l’avvento dei forum, dei gruppi di discussione, dei social network (di tutto un po’, da LinkedIn a Google+ passando ovviamente da Facebook) sappiamo, spesso a spese della nostra salute mentale, che chiunque può diffondere la propria opinione in qualsiasi campo della conoscenza umana e con essa diffonde molto spesso la propria incompetenza con l’aggravante e la recidiva, come direbbe un magistrato, che l’incompetenza diventa ancor più rischiosa quando è inconsapevole ovvero credersi competente fa più danni che essere incompetenti.

Ci sono poi altri aspetti altrettanto negativi che si associano alla presunzione di competenza e sono quelli che comunemente etichettiamo con termini quali ignoranza, negligenza, supponenza e via discorrendo, tutti atteggiamenti che incontriamo spesso nella quotidianità e su Internet.

Ed è quasi sempre l’ignoranza che genera l’incompetenza saccente; ignoranza non assolutamente limitata all’aspetto culturale perché così come esistono analfabeti estremamente competenti in un determinato campo molto più spesso un ignorante culturale è anche un ignorante sociale.

Essere ignoranti, più o meno profondamente, è uno stato e con ciò ne deriva che certamente non è una colpa: lo si è per mancanza di mezzi ed opportunità per studiare o semplicemente mancanza di capacità, si può essere ignoranti in un ambito semplicemente perché ci si occupa d’altro ma ricordo che l’ignoranza diventa davvero pericolosa se applicata in ambito sociale, di gruppo, pubblico. E da quest’ultimo punto di vista l’ignoranza dilagante su Internet sta facendo parecchi danni.

download (1)Se chiediamo ad un ignorante con la presunzione di sapere di spiegarsi o, peggio, di spiegarci, un determinato fatto può imbattersi in errori madornali che il più delle volte, con aggravio di presunzione, vengono passati per opinioni personali su cui, come noto, sembra non si possa mai dissentire ed anche se non si tratta di opinioni quali quelli relative alla sfumatura di un colore, viziata dall’illuminazione o dalle condizioni della propria retina, ma di veri e propri errori di fatto inconfutabili. Ciò che vede l'ignorante può essere assolutamente lontano dalla realtà perché questa è già condizionata dalla percezione personale indipendentemente dal livello di competenza così come la percezione di quanto siamo e sappiamo è altrettanto soggettiva. Quante volte parlando ad un pubblico incompetente non ci si rende conto di questa cosa e si tende a sminuire le proprie competenze sopravvalutando il prossimo? Non è né facile né scontato essere coscienti con pienezza dei propri limiti e delle proprie conoscenze.

Quando poi l’incompetenza arriva da parte di persone che si ritengono invece competenti ma che siano palesemente impreparate la cosa è ulteriormente aggravata: su Internet per esempio moltissime persone sono in condizioni tali da bersi la prima bufala che passa solo perché non solo lo hanno letto su Internet ma chi lo ha scritto era un professore, dottore, esperto e via discorrendo.

Ed il male dilagante del fenomeno ha il suo specchio dei tempi. In quella fiera di ignoranza ed incompetenza che è ormai la quasi totalità dei programmi televisivi invitano a titolo di esperti od opinionisti persone fino a poco prima note per essere, a modo loro, competenti in tutt’altro: showgirl che intervengono in argomenti di geopolitica ed economia globale, attori che dicono la loro su tematiche scientifiche, giornalisti di nera che vengono trattati come criminologi di fama internazionale, e sono solo pochi esempi.

Purtroppo lo scontro tra opinioni –ricordo che quasi sempre una tra queste è invece un errore clamoroso- è talmente forte che è praticamente impossibile far cambiare parere a chi si dice già convinto ed allora meglio tagliare corto: ognuno la pensi come vuole ma l'importante è che la realtà che è una sola che deve guidare le scelte senza perdere tempo dietro strade che porterebbero solo all’assunto che tutte le domande sono lecite ma non è detto che ogni domanda debba avere risposta. Inoltre molto spesso è estremamente difficile, spesso impossibile, spiegare le proprie ragioni o dimostrare la realtà perché il substrato culturale dell’ignorante ed incompetente è insufficiente: privo completamente delle basi necessarie si trincera dietro un muro di mutismo talmente alto che la discussione con un incompetente è del tutto inutile non portando a nessun risultato ed anzi, spesso fa chiudere a riccio l'interlocutore che diventa sempre più chiuso ed incapace di osservare anche la semplice realtà.

$_35Provare a far osservare a chi si reca a Lourdes per motivi di salute che un viaggio nella località francese ha un tasso di efficacia nel guarire i malati dello 0.0000335% o, se può rendere meglio, un'inefficacia del 99.9999665% è assolutamente inutile così come dirgli che il tasso di guarigione spontanea, anche inspiegabile, in medicina è più alto di quello di tutti i siti dei miracoli al mondo messi insieme.

 

Ma allora perché si continuano a diffondere voci allarmistiche, infondate, scientificamente smentite che per molti sono verità scottanti e proibite? E le cui smentite sono spesso bollate come legate agli interessi di caste e lobbies di varia natura.

Perché se un incompetente diffonde una voce allarmante, questa farà il giro del mondo e resterà impressa nelle menti anche se dopo viene smentita. E credetemi che basta molto poco a far sì che perduri nel tempo e nell’opinione comune la falsa notizia piuttosto che quella vera. Le leggende metropolitane nascono in questo modo e la prova della loro tenacia è che resistono decenni, se non secoli in qualche caso, nonostante reiterate smentite.

In Corea del Sud, se provate ad acquistare un ventilatore troverete l'avvertenza di non dimenticare mai l'apparecchio in funzione durante il sonno: in quel paese è infatti diffusa l'opinione che dormire con il ventilatore acceso possa uccidere, già. In Corea del Sud lasciare il ventilatore acceso durante il sonno è considerato un atto particolarmente pericoloso(*).

Nulla di più falso eppure la leggenda si sparse, così velocemente che ancora oggi i ventilatori in vendita in Corea del sud hanno un timer che blocca il meccanismo dopo un certo numero di minuti e soprattutto si sottolinea l'avviso di non dormire mai con il ventilatore acceso. Per una serie di coincidenze furono rinvenute diverse persone decedute in casa con il ventilatore acceso in un ristretto periodo di tempo e ciò fu sufficiente per spargere la notizia fino al punto da far emanare un comunicato ufficiale da parte di un ente che avrebbe invece dovuto tutelare i consumatori da fesserie del genere.

Qualcuno, invece di riflettere sul fatto che durante la stagione estiva sono in molti (soprattutto anziani!) ad utilizzare un ventilatore e che trovare un anziano morto con un ventilatore acceso poteva essere un normale reperto, notò quella "strana" presenza: trovare consecutivamente più di tre morti con il ventilatore in funzione poteva significare che il ventilatore uccide. Non pensò affatto che molte di quelle povere persone erano appunto anziane, molte altre alcoliste e diverse in cattive condizioni di salute.

Un po' come dire che trovare tanti fazzolettini di carta a casa di chi è raffreddato, significhi che i fazzolettini causano il raffreddore. Chi può smentirlo, in fondo.

L'incompetenza unita alla capacità di discernere realtà da fantasia, i fatti dalle ipotesi può modificare il corso di una vita.

Ed ecco come la competenza, l'analisi seria dei fatti, l'obiettività e la mancanza di pregiudizi possono condizionare in senso positivo le nostre opinioni e persino la vita.

La competenza è per tutti, chiunque può diventare competente ma non è possibile improvvisare, un principiante non sarà mai competente ma resta un dilettante. Bisogna quindi scartare le informazioni false, inutili, non leali. Se voglio appassionarmi a qualcosa posso anche usare Internet come punto di partenza ma in seguito e soprattutto devo studiare (tanto) sui testi, frequentare corsi, ascoltare docenti, interagire con persone che condividono la mia stessa passione e sete di conoscenza. Altrimenti si resterà sempre nel dominio dei ciarlatani e degli incompetenti.

Va da sé che tutto ciò l’ho scritto da perfetto incompetente.

(*) La storia nacque da un comunicato stampa del Korea Consumer Protection Board, un ente governativo che si occupa di informare periodicamente i consumatori sui provvedimenti legali e commerciali legati ai prodotti di largo consumo: dai dati raccolti dall'agenzia era "evidente" che dormire con un ventilatore in funzione provocasse la morte per ipotermia e per aumento di anidride carbonica dovuta all'aumentata circolazione di ossigeno nell'ambiente nel quale era in funzione l'apparecchio. In realtà nessuno dei due meccanismi è plausibile e soprattutto non può essere collegato in maniera convincente al funzionamento di un ventilatore, non vi è oltretutto alcuna base scientifica che spieghi la "morte da ventilatore".

martedì 22 luglio 2014

Se il Piave mormorava la Marna ululava (La I guerra mondiale: un orrore-errore militare)

Napoleon_III_Otto_von_Bismarck_(Detail)La Germania di inizio secolo XX, a differenza degli altri paesi moderni, era quella che forse più di tutte aveva una struttura antiquata: un anacronismo con una federazione di 27 regni, ducati, principati e “città libere e imperiali” tra le quali la più importante di queste componenti era la Prussia, il cui re Hohenzollern, a norma della costituzione imperiale del 1871, aveva anche il titolo di imperatore tedesco. Imperatore che nominava il cancelliere che a sua volta nominava i “segretari di Stato” che erano i reali depositari del potere esecutivo tanto che «l’esercito prussiano giurava fedeltà all’imperatore e non al popolo tedesco». E l’imperatore allora era Guglielmo II di cui si narra fosse un emerito incompetente incapace persino di seguire le proprie scelte sbagliate e temuto dai suoi stessi ufficiali che erano terrorizzati all’idea che questi potesse decidere di assumere direttamente il comando delle forze armate in tempo di guerra.

Uno dei primi clamorosi errori di Guglielmo II fu quello di far cadere un trattato con i russi per disprezzo verso Bismarck e l’aura di gloria che ancora accerchiava l’anziano generale: in tal modo fu completata quella sorta di accerchiamento ai danni della Germania stretta tra paesi tutti suoi nemici. Un sovrano assolutamente medievale convinto di poter condurre ancora la guerra in tal modo utilizzando truppe che avrebbero dovuto avere spirito primitivo e sanguinario (da lì a poco i Freikorps prima e le SA naziste dopo avrebbero dimostrato quanto questo spirito fosse così forte in simili mentalità).

Così un po’ per quello che quell’uomo era ed un po’ per quello che si credeva fosse la guerra fu considerata conseguenza inevitabile ed alla fine scoppiò davvero: non tanto per ragioni oggettive o perché qualcuno dell’alto comando l’avesse progettata, ma semplicemente per effetto del peso cumulativo delle convinzioni dell’una e dell’altra parte. Gran Bretagna, Francia e Russia si sentivano minacciate, la Germania circondata. La soluzione della faccenda non poteva essere rimandata oltre.

A differenza della guerra franco-prussiana del 1870 (nell’immagine qui sopra Napoleone III e Bismarck dopo Sedan), che Bismarck aveva preparato con cura e fatto scoppiare deliberatamente, la I guerra mondiale iniziò quasi per caso. Prendendo a pretesto un normale assassinio politico tutte le parti si gettarono in una mischia confusa, inglesi e francesi senza piani di sorta, i tedeschi con un piano rabberciato ed improvvisato. L’Italia addirittura mantenendo una meschina neutralità fino al 1915 per non smascherare la sua mancata volontà di entrare in guerra al fianco degli alleati de “La Triplice”.

Quello che seguì fu un conflitto più raccapricciante e stupido, più assurdamente distruttivo di tutti quelli che figurano nella lunga, sanguinosa storia dei professionisti della guerra, compreso quello in cui sarebbero incappati vent’anni dopo.

Ma a differenza dei vecchi tempi la radice dei loro guai non fu la semplice ignoranza tipica delle menti medievali, bensì la tipica ottusità accademica che scaturisce ogni qualvolta che uomini privi di qualsiasi predisposizione naturale per le idee sono ugualmente costretti ad imbottirsene la testa.

Lo sviluppo dell’artiglieria, già dimostrato a Sedan e nella guerra russo-giapponese del 1904-1905, aveva fatto capire che se ognuno dei due contendenti si mette sulla difensiva diventa pressoché imbattibile e condannato all’insuccesso quando tentava di passare all’offensiva; tanto che all’epoca già si studiava un modo per creare una specie di artiglieria mobile e corazzata in grado di spezzare l’impasse. In pratica uno studioso inglese aveva già inventato il carro armato a fine Ottocento ma ancora nel 1910 gli ottusi generali francesi erano ancora convinti, straordinaria conclusione, che la chiave del successo nella guerra moderna era l’impeto dell’assalto in massa!

I francesi inoltre trascurarono le linee di difesa e si autoconvinsero che i tedeschi avrebbero attaccato come fecero nella guerra del 1870 e non attraverso il Belgio neutrale. Gli inglesi non avevano affatto un esercito moderno e i tedeschi, nonostante le loro 87 divisioni non avevano ancora risolto il problema di manovrare un esercito così grande: problema comunque comune a tutti. Il quartier generale elaborava le direttive strategiche ma toccava ai comandanti delle singole unità impegnate sul campo escogitare i mezzi per produrle in pratica. Inoltre i tedeschi una volta attraversato il Belgio la loro offensiva perse slancio ed i collegamenti difettosi provocarono un varco nel fronte di avanzata dove gli inglesi prima ed i francesi dopo si infilarono ben presto.

Ma ciò significò anche altro.

Da quel momento in poi ambedue le parti furono condannate, grazie alla totale incapacità dei rispettivi comandanti di inventare tattiche nuove, a più di tre anni di logorante guerra di trincea. Entro il 1914 la potenza congiunta dell’artiglieria da campagna, delle mitragliatrici e dei fucili a ripetizione era diventata soverchiante. La fascia di terreno compresa tra le prime linee dei due contendenti si trasformò in una distesa di fango insanguinato, disseminato dei resti umani di attacchi precedenti e resa pressoché insuperabile dalle migliaia di crateri aperti dalle granate. Né un uomo, né un animale, né una casa potevano sopravvivere in questa landa desolata, dai Vosgi alla Manica.

I tentativi dei tedeschi di uscire dal vicolo cieco con l’uso di gas velenosi e vescicanti(*) si dimostrarono vani grazie al rapido sviluppo della maschera antigas anche se le loro prime versioni erano così grossolane che le truppe attaccanti, costrette ad indossarle, non riuscivano a vedere dove stessero andando, offrendo un bersaglio ideale avanzando incespicando, attraverso centinaia di metri di terreno sconvolto, verso i reticolati di filo spinato a volte anche elettrificati dietro i quali, appostati nelle casematte, li aspettava il nemico pronto a rovesciare sugli attaccanti micidiali raffiche di proiettili di fucile e mitragliatrice o bombe a mano in grado di colpire fino a 50-70 metri.

Nel tentativo di spezzare questo tipo di posizione si ricorreva spesso al tambureggiante tiro d’artiglieria di sbarramento che a volte durava giorni interi prima di un assalto: ma gli uomini di entrambe le parti impararono presto a scavare buche più profonde, a rinforzare le difese con cemento armato od a disporre le linee a zig-zag, e soprattutto a vivere per settimane intere sotto terra in rifugi spesso parzialmente allagati, con scarsità di viveri e munizioni, contraendo malattie, morendo anche per le conseguenze virali di lievi ferite o impazzendo. In tutti gli eserciti coinvolti il numero di diserzioni, ammutinamenti e casi di autolesionismo furono tra i più alti se non i più alti della storia militare.

Nell’intera storia della guerra nessuno aveva mai ideato un sistema di combattimento altrettanto inefficace, altrettanto distruttivo della sempre precaria umanità dell’uomo, e soprattutto applicato con così feroce ostinazione.

Nel passato, anche quello recente di Sedan, le battaglie erano sempre state necessariamente episodiche: gli eserciti si addestravano, marciavano, effettuavano manovre ed infine, dopo qualche settimana, prendevano posizione e si affrontavano una volta per tutte, di solito nel giro di poche ore. Seguiva poi un periodo analogo che vedeva impegnate a volte le stesse forze a volte nuove. Sebbene la minaccia incombesse su tutti, i soldati non vi erano esposti in modo continuo, per mesi od anni di fila eccezion fatta che le rare campagne come quella di Napoleone in Russia o Carlo XII in Ucraina. Nonostante le prime avvisaglie della guerra civile americana dove si pensava ancora che gli uomini avrebbero resistito fu solo nel 1914 che la guerra divenne un inferno e fece perdere alla vita del soldato quel minimo di fascino che ancora esercitava.

L’imbecillità umana non ha limiti ma nella I guerra mondiale raggiunse un apice destinato forse ad essere superato solo il giorno in cui cervelli dello stesso stampo avrebbero affrontato il problema di come combattere e sostenere una guerra nucleare dovniente-di-nuovo-sul-fronte-occidentale-riassuntoe nessuno sopravvive. E questa imbecillità è palese leggendo come Remarque racconta, nel suo memorabile e famosissimo “Niente di nuovo sul fronte occidentale” che nonostante la ferocia degli assalti e dei bombardamenti dei giorni precedenti un assalto “Non immaginavamo di trovare una simile resistenza”. Dopo anni di insuccessi, milioni di granate, miliardi di franchi, marchi, sterline e lire spesi e centinaia di migliaia, milioni di vite umane spese, nessuno aveva capito che l’artiglieria non ha alcuna possibilità di annientare una guarnigione annidata nella terra come tarli(**).

E con simili imbecilli al comando, la cui mentalità non superava quella di uno spedizioniere impegnato a sostituire morti con vivi, non si poteva andare oltre.

L’Italia poco od affatto citata in tutto questo? Ha certo contribuito con i suoi generali ad alimentare la stupidità generale e l’assoluta mancanza di strategia e men che meno di tattica. Ma pur con i risentimenti emotivi che questa ci evoca, a cominciare dalla canzoncina del Piave che chi ha la mia età ha imparato a memoria alle elementari, il suo ruolo nel quadro complessivo della I guerra mondiale fu davvero marginale.

Ed in questo orrore ed errore clamoroso alla fine non ci furono mai davvero dei vinti né dei vincitori tanto che da lì a poco gli stessi attori finirono per ingaggiare l’ancor più sanguinaria II guerra mondiale con l’Italia, guarda caso, ancora una volta,  poco disposta a prendere una posizione certa altalenando da un attendismo iniziale ad un cambio di posizione finale con tanto di interludio imperial-espansionistico.

 

(*) Le vittime di questi gas spesso affogavano dall’interno. I loro polmoni si riempivano infatti di liquidi e morivano soffocati sotto gli occhi dei medici impotenti.
(**) Lo avrebbero sperimentato ancora gli americani nelle Ardenne o nelle isole del Pacifico, in Vietnam od anche i russi in Afghanistan.

domenica 20 luglio 2014

La guerra metafisica

20-07-2014 20-45-26

La storia dell’umanità è costellata da conflitti e le guerre vengono risolte e decise con battaglie più o meno grandi e con vincitori e vinti: a volte il vinto attende le decisioni del vincitore ed a queste si attiene (come la Germania nel 1945) altre volte il vinto lascia al vincitore l’oggetto del contendere per evitare danni maggiori (come la Russia sconfitta dal Giappone che nel 1905 lasciò a questo la Manciuria).

Ma il conflitto che oppone arabo-palestinesi ed Israeliani è completamente diverso: le parti si affrontano da quasi un secolo in guerre e guerriglie che si succedono incessantemente. A volte sembra sopito ma ecco che di colpo si riaccende e si ha sempre l’impressione che non ha importanza chi vince o chi perde e che ognuna delle due parti stia lì semplicemente ad attendere la battaglia successiva. Questa guerra non dichiarata si sussegue implacabile e passa da una generazione all’altra, ormai la terza, dove i giovani di entrambe le parti stanno combattendo la stessa guerra dei loro nonni.

Ed a catastrofe si sussegue catastrofe con i palestinesi da un lato che vivono spesso ai limiti della sopravvivenza, dall’inferno di Gaza ai campi miserabili del Libano o della Giordania e dall’altro gli israeliani in perenne tensione mai in grado di trovare situazioni di pace.

Il resto del mondo resta a guardare preoccupato ogni volta per gli effetti di escalation in un territorio così politicamente importante in un’aerea instabile ed a ridosso immediato di territori ricchi di risorse energetiche. Resta a guardare con atteggiamenti contraddittori e prese di posizione nei confronti dell’una o dell’altra parte spesso paradossali e storicamente antitetiche nonostante la soluzione sia sotto gli occhi di tutti: stabilire due stati autonomi e sovrani.

Anche se il conflitto nasce dal trasferimento via via più ingente di ebrei che andarono in Palestina a partire dai primi del Novecento e con vere e proprie emigrazioni di massa a partire dal 1947 in punta di diritto non è possibile stabilire per questo conflitto delle ragioni più o meno plausibili che possano essere usate come giustificazioni dell’una o dell’altra parte, come quasi sempre accade per ogni conflitto.

Lo stato di Israele non nasce come atto di forza ma con una risoluzione a maggioranza delle Nazioni Unite e se è per questo non è mai esistito uno stato Palestina ma solo arabi che vivevano in un territorio vastissimo. E comunque sia lo stato di Israele è ormai un dato di fatto. Né si tratta di una disputa territoriale quale ad esempio quella rivendicata dalla Jugoslavia di Tito sull’Istria “italiana”.

D’altra parte come dar torto ai palestinesi? Pur non cacciati veramente ed addirittura invitati ad integrarsi fornendo loro la falsa promessa che avrebbero goduto di maggiori libertà hanno visto anno dopo anno ridurre il territorio a loro disposizione a causa della intensa e distruttiva colonizzazione ebrea in cerca sempre più estesi territori necessari al loro sostentamento.

Nonostante spesso le parti forti del mondo come l’ex Unione Sovietica e la Russia oggi, gli Stati Uniti o la Cina abbiamo patteggiato per l’una o l’altra parte con aiuti economici e militari concreti un altro dei paradossi che rendono impossibile la soluzione militare del conflitto sta nel fatto che queste stesse parti forniscono aiuti ma non al punto di permettere la vittoria ad una delle due parti: i loro interessi sono troppo ramificati per danneggiare direttamente anche tutti gli altri attori del teatro medio-orientale.

Nonostante questo c’è qualcosa che non posso fare a meno di pensare ogni volta che la tensione, mai sopita, da quelle parti aumenta.

Israele nacque sull’uso del terrore su larga scala, dei massacri di palestinesi, della loro spoliazione, umiliazione e vessazione oltre ogni umana decenza, sul sotterfugio e sulla menzogna. E non sto parlando degli avvenimenti contemporanei, ma di fatti accaduti 60, 80 anni fa. Il destino della parte araba era segnato, e fu segnato quarant’anni prima dell’Olocausto nazista: già ai primi del novecento infatti i palestinesi erano considerati dai padri del sionismo, e futuri fondatori di Israele, una stirpe inferiore semplicemente da accantonare ed espellere, senza diritti, senza una Storia, un non-popolo. Il piano di pulizia etnica dei palestinesi prese vita alla fine del XIX secolo e non ha mai trovato soluzione di continuità fino ad oggi, e oggi come allora viene condotto dalla parte ebraica con una crudeltà senza limiti. L’immane tragedia dello sterminio ebraico nell’Europa di Hitler diede solo un impuso a quel piano, lo rafforzò, ma non lo partorì.

Ormai da troppi decenni l’atteggiamento dei “falchi” israeliani nei confronti dei palestinesi è assimilabile a quello di qualsiasi popolo che ritenga il nemico diverso: per religione, per razza o semplicemente per tradizioni.

I conflitti inoltre, visto lo strapotere militare israeliano, sono sempre niente affatto equi. e non equo è l’uccidere decine di civili inermi, o costringerli ad abbandonare ogni loro avere (esattamente come facevano i nazisti quando rastrellavano gli ebrei) in poche decine di minuti per stanare due o tre militanti di Hamas?

A me sembra una scusa per fare ancora pulizia etnica...

domenica 27 aprile 2014

Infinitesimi

In termini cosmici la mia esistenza non ha senso: o meglio l'unico senso della mia esistenza è il fatto stesso che io esisto. Lo scopo della mia vita? "Lo scopo è vivere". Una tautologia che vale sempre la pena di tenere a mente.

Quindi, dal punto di vista del cosmo, la mia esistenza non ha un senso né uno scopo né alcuna necessità (non c'è da vergognarsene - varrebbe lo stesso anche per Dio, se Dio esistesse). Io sono qualcosa di accidentale, di contingente. Avrei potuto benissimo non esistere.

"Benissimo" quanto? Facciamo un piccolo calcolo. Appartengo alla razza umana e perciò possiedo un’entità genetica precisa. Il genoma umano consiste di circa trentamila geni attivi. Ognuno di essi ha almeno due varianti, o “alleli”. Quindi, il numero di identità geneticamente distinte che il genoma può codificare è pari ad almeno 2 elevalo alla trentamilesima – a spanne, 1 seguito da diecimila zero. E’ il numero degli individui potenziali permesso dalla struttura del DNA.

E quanti individui potenziali sono esistiti davvero? Secondo le stime, da quando esiste la nostra specie, sono nati circa 40 miliardi di esseri umani. Arrotondiamo a 100, per prudenza. Questo significa che la frazione di esseri umani geneticamente possibili venuti al mondo è meno di 0,00000…000001 (inserire circa 9.979 zeri al posto del puntini). La stragrande maggioranza degli umani geneticamente possibili è fatta di spettri non ancora nati(1). Ecco a quale fantastica lotteria ho dovuto vincere – e voi con me – perché la mia candelina si accendesse. Se non è il massimo della contingenza, poco ci manca.

(…)

Non riesco a non sentirmi meravigliato di esistere – e che l’universo sia riuscito a produrre i pensieri che ribollono adesso nel flusso della mia coscienza.

Tuttavia lo sconcerto che provo pensando alla mia improbabile esistenza ha un curioso contrappunto: la difficoltà di immaginare la mia pura non-esistenza. Perché è così difficile immaginare un mondo senza me, un mondo in cui non ho mai fatto la mia comparsa? In donfo so di essere un dettaglio tutt’altro che necessario della realtà.

(…)

Lo so: la sensazione che la “qualcosità” del reale dipenda dalla mia esistenza è un’illusione egocentrica. Ma non perde il suo notevole fascino neanche se la considero tale. Come posso restarne immune? Forse tenendo bene a mente che il mondo se l’è cavata benissimo senza di me per secoli e secoli, prima del mio improbabile e improvviso risveglio dalla notte dell’incoscienza, e che continuerà a cavarsela senza intoppi anche dopo il mio prossimo ed inevitabile momento in cui a quella notte farò ritorno.

(…)

Se la mia nascita è accidentale, la mia morte è una necessità.

Estratto da Jim Holt “Perché il mondo esiste?”



(1) NdR: e che non avranno mai modo di nascere.

domenica 23 marzo 2014

A forza di calci…

Oggi un essere umano vive in due mondi. Il proprio e quello globale. Un essere umano immigrato vive in tre mondi perché ai primi due occorre aggiungere quello del paese d’origine. E sia gli uni che gli altri vivono spesso in nazioni talmente varie che non è difficile trovare qualcosa come 90 lingue diverse nelle scuole elementari di Londra ed almeno una trentina se non di più in quelle di Roma o di Milano.

La multiculturalità va riconosciuta al pari dell’accettazione dell’immigrazione, volenti o nolenti, poiché maggiore è il divario tra le terre in cui si gode di pace e ricchezza inimmaginabili e quelle povere, tanto più vasti sono i flussi di esseri umani che passano dalle une alle altre e la globalizzazione rende noto dappertutto che esistono paesi le cui strade, si diceva un tempo, sono lastricate d’oro.

Ma questo nuovo pianeta così complesso, globalizzato e multidimensionale, che si muove e si combina di continuo, reca con sé la speranza di una fraternizzazione umana, da cui la nostra epoca xenofoba pare così lontana?

Come sapete sull’argomento sono abbastanza fiducioso e pur non amando il calcio particolarmente ho trovato molto interessanti e più che condivisibili le considerazioni di Eric Hobsbawm in “La fine della cultura” che raccoglie una serie di interventi in proposito.

Lo storico inglese afferma di non avere la risposta alla domanda ma pur non potendo ovviamente prevederlo trova proprio nella storia un valido aiuto, se non a predire il futuro, a riconoscere ciò che è storicamente nuovo nel presente – e dunque a gettare luce sull’avvenire.

Esiste dunque speranza di fraternizzazione? Hobsbawn crede che la risposta si possa trovare nel mondo del calcio e vi riporto le sue parole integralmente (1).

Il più globale tra gli sport è al tempo stesso il più nazionale. Per la maggioranza degli esseri umani, oggi si tratta di undici giovanotti su un campo di football che incarnano «la nazione», lo Stato, il «nostro popolo», molto più di quanto non avvenga per i politici, le costituzioni e lo spiegamento di forze militari. Chiaramente, le nazionali sono composte da cittadini dei rispettivi Paesi. Ma tutti sappiamo che questi sportivi miliardari appaiono in un contesto nazionale soltanto per alcuni giorni all’anno. Nella loro principale occupazione, sono mercenari transnazionali, pagati profumatamente, che giocano quasi tutti all’estero. Le squadre di club acclamate da un pubblico nazionale sono un miscuglio eterogeneo di moltissime razze e nazioni, in altre parole di campioni provenienti da tutto il mondo. I club di maggior prestigio a volte schierano a malapena più di due o tre giocatori «indigeni». E questo è logico, anche per i tifosi razzisti, che a loro volta vogliono una squadra vincente, sebbene non sia di razza (2)”

Beata la terra che, come la Francia” prosegue Hobsbawn “si è aperta all’immigrazione e non contesta l’etnicità dei suoi concittadini. Beata la terra che è fiera di poter scegliere per la sua nazionale tra africani ed afrocaraibici, berberi, celti e figli di immigrati iberici e di europei dell’Est. Beata, non solo perché questo le ha permesso di vincere il Campionato del mondo, ma perché oggi i francesi –non gli intellettuali ed i principali oppositori del razzismo, ma le masse, che dopotutto hanno inventato e ancora incarnano la parola «sciovinismo»- hanno dichiarato che il loro miglior calciatore, figlio di musulmani immigrati dall’Algeria, Zinedine Zidane, è il «più grande francese». Questo non è certo distante dal vecchio ideale della fratellanza tra le nazioni, ma è invece ben lontano dal punto di vista dei delinquenti neonazisti in Germania e da quello del governatore della Carinzia. E se le persone non vanno giudicate per il colore della pelle, la lingua, la religione e cose del genere, bensì per il loro talento ed i risultati che ottengono, allora c’è motivo di sperare, E c’è motivo di sperare, poiché il corso della storia va nella direzione di Zidane e non in quella di Jörg Haider(3)”

 

(1) i riferimenti alla Francia dipendono dal fatto che questo intervento è del 2000.
(2) in Italia siamo riusciti a farci riconoscere anche su questo con cori razzisti indirizzati persino a membri della squadra che si va a tifare
(3) lo xenofobo nazionalista governatore della Carinzia prima citato.

sabato 8 marzo 2014

Meritocrazia un cazzo!

tesidilaureaLa meritocrazia. Questa sconosciuta.

In Italia vige ancora una legge del 1933 (!) che impedisce a chiunque stia frequentando corsi post laurea (dottorati, master, scuole di specializzazione) di accedere ad altri corsi di formazione che consentano di conseguire titoli quali abilitazioni all’insegnamento o specializzazioni in ambito scolastico. Una deroga del 2009 ammette la concomitanza solo per corsi post laurea da meno di 1500 ore e per meno di 60 crediti...in pratica nessuno!

Questa deroga poi è abbastanza ridicola ed il pensiero va subito al sospetto che si volle certo favorire qualcuno od il di lui figliolo!

Posso rendermi conto che l’impegno che la concomitanza di tali impegni di studio e frequenza possa creare non pochi problemi a chi vi accede; ma visto che non esiste nessuna legge per cui è vietato iscriversi a due corsi di laurea contemporaneamente non si capisce proprio perché questa legge sia tuttora in vigore! I concetti sono analoghi.

Sarà un problema del singolo sentirsi in grado di sostenere entrambi gli impegni o no? Oppure un problema delle università decidere che un dottorando che frequenta o produce poco a causa di altri impegni non sia degno od in grado di proseguire?

Faccio presente che i corsi da frequentare a titolo esclusivo ed incompatibili con altro non è che siccome sono erogati gratuitamente dallo Stato allora dovremmo concedere qualcosa in cambio...Macchè! Sono a pagamento (da 2500 ad oltre 4000 €) e vi si accede con una dura selezione basata su tre prove specialistiche! Lo stesso dicasi per i master o per i dottorati che, salvo pochi raccom…ops, fortunati e laddove sia prevista una borsa di studio, sono altrettanto cari e dispendiosi!

Ed i corsi di specializzazione d’indirizzo scolastico sono spesso sostenuti con ulteriori aggravi e fatiche da parte di gente che sta già lavorando come supplente o come professore di ruolo che aspira a fare qualcosa di diverso, di più gratificante.

Quindi visto che, ed addirittura di recente molti quotidiani gongolavano nel raccontare che non vale la pena studiare, una laurea non basta, un dottorato non basta, anni di sacrifici da parte degli studenti e delle loro famiglie non servono ad una beneamata, almeno che si consenta ad ogni studente di ammazzarsi di studio e di specializzazioni come meglio crede visto che lo paga, in ogni senso, di tasca propria e su base volontaria!

E soprattutto visto che un lavoro stanno provando a comprarselo!!! E cioè dato che non si trova gratuitamente e come cosa dovuta da parte di qualsiasi Stato che sia0 degno di questo nome!

Se non diamo loro neanche la possibilità di distinguersi per meriti di studio e per gli impegni e le fatiche concrete è inutile stare a blaterare di…meritocrazia!

Una nota di merito fuori tema all’ex ministro Profumo, quello del governo Monti, l’unico che nonostante la brevità del suo incarico sembrava avesse finalmente capito qualcosa sul da farsi. Lo stesso che ha indotto un corso per conseguire l’abilitazione (il famigerato TFA su cui ho scritto diverse volte) e conseguente concorso.

Profumo aveva proposto con ddl l’abolizione della legge del 1933 ma poi è arrivata la Carrozza ed ha sputtanato tutto. Niente più concorsi (alla faccia dei 12.000 abilitati) e niente più ddl. Sappiamo quanto è durata, per fortuna.

L’attuale ministro? La Giannini? Non lo so, è arrivata ora e non voglio sparare a zero, anche se sparerei sulla croce rossa. Ma sono abbastanza sicuro che sarà un’altra inutile persona Dopo tutto la previsione è facile: la statistica aiuta. Il 95% dei ministri dell’Istruzione del passato hanno solo fatto casino e danni, in cima all’elenco la Gelmini e la Moratti. E non state a fare i sofisti pensando che anche gli altri ministri di altri dicasteri hanno fatto lo stesso!

Personalmente poi questa roba del dottorato (appartengo ad altra generazione) la ritengo un’altra minchiata importata di sana pianta dagli Stati Uniti (dove i corsi universitari hanno tutt’altro tenore e durata!). A quanto pare oggi aver conseguito la laurea non basta, se non hai un dottorato non sei nessuno. Che clamorosa imbecillità fatta per continuare a spillare soldi alle malcapitate famiglie degli studenti e continuare ad alimentare un flusso di denaro utile a sostentare una maggioranza di imboscati e raccomandati (e questo è lo stesso motivo per cui qualche furbetto un paio di decenni fa si inventò che i corsi di laurea fino ad allora quadriennali dovettero diventare quinquennali, o le lauree 3+2 e 4+1…)

A questo link una delle tante fonti che parlano anche di recente di questa legge regia se non fascista.

PS) E diciamola tutta che si tratta del solito interesse privato in atto pubblico. Me la prendo così tanto perché una persona vittima di questo ennesimo non senso tutto nostrano è proprio mia figlia, che dopo esser stata presa in giro col TFA dovrà rinunciare al dottorato per specializzarsi sul sostegno! E come lei a migliaia!

domenica 23 febbraio 2014

Infiniti noi

Perché noi qui, infiniti noi
siamo il tempo innocente
che nasce dal silenzio del mondo
intorno a noi.
(I Pooh, 1973)

 

 

 

Se l'universo fosse infinito? Avremmo il paradosso della replicazione infinita.

Immaginate di vivere in un universo dove nulla è originale. Nessuna idea è mai nuova. Non c'è nessuna originalità, nessuna novità. Nulla è mai stato fatto per la prima volta è nulla sarà mai fatto per l' ultima volta. Nulla è unico. Ognuno non soltanto ha un sosia ma ne ha un numero illimitato.

Questa insolita situazione si verifica se l'universo è infinito quanto a estensione spaziale (cioè a volume) e se la probabilità che la vita si sviluppi non è uguale a zero. Si verifica a causa del modo singolare in cui infinito differisce radicalmente da qualsiasi grande numero finito, per quanto grande è esso sia.

In un universo di estensione infinita tutto ciò che ha una probabilità non nulla di accadere deve accadere infinite volte.

Così in ogni istante - per esempio, in questo momento - deve esserci un numero infinito di copie identiche di ciascuno di noi che stanno facendo esattamente ciò che ognuno di noi sta facendo ora. Ci sono anche numeri infiniti di copie identiche di ciascuno di noi che stanno facendo qualcosa di diverso da quello che stiamo facendo noi in questo momento. In realtà si potrebbe trovare un numero infinito di copie di ciascuno di noi che in questo momento stanno facendo qualsiasi cosa ci fosse possibile fare con una probabilità non nulla in questo momento.

Il paradosso della replicazione spaziale, a parte il comprensibile disagio psicologico che crea, ha conseguenze di ogni tipo anche strane.

Una delle conseguenze logiche del risultato dell’evoluzione della vita è che questa ha probabilità non nulla visto che siamo qui a parlarne; quindi in un universo infinito deve esistere un numero infinito di civiltà in vita con al loro interno copie di noi stessi di tutte le possibili età. Quando moriremo ci sarà sempre altrove un numero infinito di copie di noi stessi, che avranno tutti i medesimi ricordi e le esperienze delle nostre vite passate, ma che continueranno a vivere nel futuro. Insomma così vista la questione è come se ognuno di noi «vive» per sempre.

I teologi, primo fra tutti Agostino, hanno confutato questo argomento sostenendo che la vita deve esistere solo sulla Terra e non altrove perché se la crocifissione di Cristo ha avuto una probabilità non nulla di accadere – e stando a quanto sostengono è accaduta – allora in un universo infinitamente grande essa è accaduta infinite volte altrove: in questo modo essa perde il significato che le si attribuisce.

E’ inoltre dimostrabile che se incontrassimo uno dei nostri cloni non sarebbe come rivedere se stessi nello specchio del tempo perché è più probabile che pur avendo avuto passati identici di fronte a nuove situazione si prenderebbero decisioni diverse, proprio come farebbero gemelli identici con i futuri di ognuno dei cloni con più probabilità di divergere che di rimanere simili.

La cosa curiosa di questa «teoria» è che essa stessa non sarebbe originale. E’ già stata proposta infinite altre volte.

Come se ne esce? Qualche ipotesi c’è. La scappatoia meno elegante ma più semplice è ammettere che l’universo sia finito oppure ricorrere alla finitezza della velocità della luce che come noto ha un limite ben preciso. Il fatto che la velocità della luce abbia un limite pari a circa 300.000 km/s fa sì che l’universo che possiamo osservare abbia delle dimensioni circoscritte. La conseguenza è che a conti fatti (che vi risparmio) la distanza alla quale potremmo incontrare un primo sosia, mio o vostro, è pari a circa 10N metri dove N=1027, un numero enorme!

C’è un altro modo per evitare il paradosso della replicazione infinita ovvero ammettere che la probabilità dell’evoluzione della vita nell’universo sia nulla.

In tal caso il numero delle copie di ognuno di noi sarebbe pari a 0 x ∞ che può essere uguale a qualsiasi numero finito, perché se dividiamo 1 per 0 otteniamo infinito, se dividiamo 2 per 0 otteniamo ancora infinito e così via. Quindi potrebbe esserci soltanto un nostro sosia altrove, ma potrebbero benissimo essercene un milione di miliardi!

Ma affermare a priori che la vita compaia pur avendo una probabilità nulla di realizzarsi in modo naturale equivale a dire che essa ha un’origine miracolosa o soprannaturale. Quindi il paradosso della replicazione infinita è scongiurato ammettendo che la vita sulla Terra sia pre-programmata per evolversi. Personalmente questo introduce per me ben altri paradossi.

Se fosse infinito nel tempo, anche solo nel tempo e non nello spazio, le cose non starebbero certo meglio. Con un tempo infinito a disposizione qualsiasi cosa abbia una probabilità finita di accadere sarà accaduta infinite altre volte nella storia passata. Nessuna idea può essere nuova ed universi di questo tipo hanno una caratteristica sorprendente.

Se c’è una probabilità finita che la vita intelligente si sviluppi (e c’è visto che, ancora, siamo qui a parlarne) questa deve essere infinitamente comune e con il passare del tempo dovrebbe esserci un enorme incremento della frequenza di esseri viventi tale che in un universo infinitamente vecchio dovremmo vedere extra terrestri ovunque ma visto che non li vediamo ecco un altro paradosso anche se non è escluso che ET sia talmente piccolo, nanoscopico, da non poter essere visto nella maniera che intendiamo comunemente.

Ultimo paradosso. Con implicazioni etiche e morali.

In un universo infinito ne consegue che la quantità di bene o di male, intesa come azioni che li producano, è altrettanto infinita. Quindi nulla che possiamo fare (o non fare) può aumentarla: infinito più qualcosa è sempre ancora infinito. In un universo infinito gli imperativi etici che spingono a fare il bene non hanno senso alcuno; perché dovremmo agire per il bene se in questo momento ci sono infinite copie di noi stessi che stanno facendo esattamente il contrario scegliendo alternative moralmente riprovevoli? Ecco che quindi più che imperativi etici che spingono a fare il bene occorrerebbe che gli stessi imperativi spingano a fare azioni giuste analizzate individualmente.

Ma ciò non toglie che un universo infinito porta con sé una serie di conseguenze che definire bizzarre è solo un inizio pur ammettendo che la finitezza della velocità della luce restringe il nostro orizzonte ad un punto tale che possiamo teoricamente preoccuparci ed occuparci soltanto delle nostre azioni visto che le probabilità di avere un contatto, od un impatto se volete, diretto con un nostro sosia sono pressoché nulle, ma non nulle.

Non c’è una soluzione semplice per i problemi etici posti da un universo infinito. Forse c’è qualcosa di sbagliato nella nostra concezione geocentrica dell’etica.

Vi affascina o vi inquieta?

domenica 9 febbraio 2014

Se puoi pensarlo puoi farlo?

imageGiorni fa un'amica ha condiviso su Facebook questa mitica frase “Se puoi sognarlo puoi farlo o roba del genere ed approfondendo  ho scoperto che è uno dei tanti aforismi attribuito con certezza a Walt Disney che, come noto, di fantasia ne aveva a iosa ed a cui vanno soprattutto attribuite le responsabilità di aver antropomorfizzato animali d’ogni genere (ma la cosa non fa male, almeno finché si è bambini!).

In realtà questa frase mi ha fatto venire in mente alcune considerazioni lette in un paio di libri di John Barrow (“I numeri dell’universo” e “L’infinito”).

 

E’ la presenza della coscienza che si è evoluta negli esseri umani tanto da consentire loro di pensare ed addirittura di pensare a quello che potrebbero pensare che permette che i presagi dell'infinito (ovvero anche poter pensare di fare qualsiasi cosa) si possano insinuare in noi.

Il libero arbitrio è una cosa strana.

Sembra che siamo in grado di pensare quello che vogliamo. Non c'è alcun limite definito a ciò che possiamo pensare ed alle fantasie della nostra mente. Non saranno memorabili, non saranno utili ma sembra che siano sempre leggermente diverse. Nuove esperienze, nuovi contesti e nuove interazioni generano uno spettro continuo di differenti idee e rappresentazioni del mondo. Questa, secondo me, è una solita ragione per pensare che vi siano possibilità illimitate -una riserva infinita di possibilità- in cui immergerci. Ma, appunto, la parola chiave è ancora una volta pensare, e pensare non equivale a fare e quindi questo pensare che vi siano possibilità illimitate è sbagliato.

Infatti ed abbastanza naturalmente, nonostante le opinioni contrarie, esiste invece un numero finito di pensieri che possiamo avere. E' un numero immenso -probabilmente il numero più grande che abbiate mai visto- ma non di meno finito.

Conteggiando il numero delle configurazioni neurali che il cervello umano può ospitare, si è stimato che sia in grado di rappresentare circa 1070.000.000.000.000 «pensieri» (1 seguito da 70.000 miliardi di zeri!!!

Si chiama “Numero di Holderness” e ve lo spiego bene nella nota sotto. Per confronto tenete presente che ci sono soltanto 1080 atomi (1 seguito da 80 zeri) circa nell’intero universo visibile.

Il cervello umano è piuttosto piccolo, contiene soltanto (…) 1027 atomi circa, ma la sensazione che abbiamo di poter pensare senza limiti deriva non tanto da questo numero, quanto dall’immensità del numero delle connessioni che possono stabilirsi tra i gruppi di atomi che compongono la rete neurale del cervello.

Questo è quello che si intende per complessità ed è proprio la complessità della nostra mente che dà origine a quella sensazione di essere al centro di sconfinate immensità.

Ma non c’è sorpresa in questo. Se la nostra mente fosse significativamente più semplici, saremmo troppo semplici per conoscerla!

E comunque estremamente complesso non significa infinito.

Non ci credete? Iniziate a contare!

===========================================================================================

Numero di Holderness – Il nostro cervello contiene circa 10 miliardi di neuroni, da ciascuno dei quali di dipartono dei tentacoli, o assoni, che lo connettono a circa 1000 altri. Sono le connessioni neuronali alla base del pensiero, cosciente o meno (pensiero incosciente? state respirando ora o no? il vostro cuore batte? state digerendo?). Il cervello può fare molte cose contemporaneamente e quindi possiamo pensarlo come un certo numero –diciamo 1000- di piccoli gruppi di neuroni. Se ciascun neurone effettua 1000 connessioni con 10 milioni di altri nello stesso gruppo, allora il numero dei modi diversi in cui potrebbe formare connessioni nello stesso gruppo di neuroni è 107 x 107 x 107 … x 1000 volte e questo fa 107000  possibili configurazioni di collegamento. Ma questo vale per un solo neurone del gruppo. Il numero totale per 107 neuroni è 107000  moltiplicato per sé stesso 107 volte. Ovvero 1070.000.000.000. Se a questo punto i circa 1000 gruppi di neuroni possono operare in modo indipendente l’uno dall’altro, allora ciascuno di essi contribuisce al totale con 1070.000.000.000 possibili connessioni facendolo salire fino al numero di Holderness, 1070.000.000.000.000.

Quanto è grande 1 miliardo? Ovvero solo 109. Provate a pensare di dover contare da 1 ad 1.000.000.000 al ritmo di una cifra al secondo. In un anno non bisestile ci sono 31536000 secondi. Il che ci porta al risultato che occorrono poco meno di 32 anni per arrivare al traguardo….Ma non ce la fareste comunque perché solo per pronunciare 927.465.812 (novecentoventisettemilioniquattrocentosessantacinquemilaottocentododici…) velocemente ci vogliono da 3 a 5 secondi!!!

lunedì 27 gennaio 2014

27 gennaio

P1100969La brutalità, sui campi di battaglia od in ambiti collaterali alle guerre, non è stata monopolio dei tedeschi. La guerra è brutale. Ci sono testimonianze di episodi di brutalità e crudeltà gratuite che interessano tutti i tempi e tutti gli eserciti ma sulla base dei dati di fatto ci sono differenze sostanziali da non trascurare.

Di stermini ce ne sono stati e se è per questo anche più cruenti e numerosi di quello relativo ma niente fu mai così concentrato nel tempo e nello spazio come quello effettuato dalla Germania nazista con meticolosa sistematicità ed iniziato fin dai primi anni trenta con la deportazione sistematica di "diversi" (omosessuali, zingari, malati di mente, bambini handicappati fisici o mentali sottratti ai genitori illusi che venissero affidati alle cure di specialisti) e finito con la tristemente famosa "soluzione finale".

Non è lecito separare la politica interna dei tedeschi durante la seconda guerra mondiale da quella estera e concludere che i campi di sterminio ed i centri di tortura erano aberrazioni che niente avevano a che fare con la Wehrmacht, l’esercito regolare, col regime e con i milioni di persone che, con evidente entusiasmo, approvarono e sostennero l’impresa dall'inizio alla fine.

Preso atto che di solito in guerra tutte le parti possono commettere delle atrocità (e ne commettono) resta pur sempre vero che i tedeschi furono dei pionieri veri e propri nel campo dello sterminio su scala industriale; furono i primi a costruire stabilimenti appositamente a quello scopo, a deportare in massa uomini, donne e bambini e trasformarli, almeno in certi campi, non solo in ossa e cenere, ma in prodotti secondari utilizzabili (sapone, pelle, oro reclamizzato per protesi dentarie ecc).

La principale differenza tra la Germania nazista e gli altri paesi consistette nell'accuratezza burocratica e nella mancanza di ipocrisia della prima; invece di voltare la testa dall'altra parte, i tedeschi presero atto della loro disumanità e la sistematizzarono, provocando così l’orrore e l’unanime condanna del mondo intero.

La conseguenza primaria non fu tuttavia morale bensì pratica. La semplice forza della paura che ispiravano spinse paesi naturalmente ostili tra loro, la Russia e le altre democrazie, ad unirsi in una formidabile alleanza per contrastarli; così invece di combattere su di un solo fronte, come avevano voluto, si trovarono a combattere su tre. E persero. Per fortuna.

domenica 12 gennaio 2014

Il teorema dell’aborigeno

TEOREMA ABORIGENO

La distanza genera credulità, che quanto più un evento è lontano nello spazio tanto più ciecamente gli uomini tendono a prendere per buona qualsiasi cosa si racconti su di esso.

Questo aspetto, legato allo spazio, per estensione è facilmente riportabile anche a distanze nel tempo o nel divario conoscitivo tra un individuo e l’altro o più genericamente tra l’individuo e la conoscenza come antitesi all’ignoranza stessa.

Distanze queste molto spesso ancora più insormontabili che non quelle geografiche: un ignorante può senza dubbio riuscire ad organizzarsi per un viaggio transoceanico a visitare popoli della Melanesia ma sempre ignorante resta. Si pensi, ancora a semplice esempio, alle leggende ed alle mitologie, religioni comprese, tramandate per secoli e millenni a cui ancora la maggioranza crede od alla profonda ignoranza per cui ancora così tanti credono alle intercessioni di santi, patroni, maghi e guaritori o, per associazione di idee passando dal patrono al patronum ed i suoi clientes di romana memoria alla ingenuità con cui la maggioranza si beve le cazzate dei politici.

Il fatto fondamentale sembra essere che i mezzi di comunicazione non hanno affatto annullato lo spazio, nel senso di consentire al genere umano di riflettere in modo razionale su avvenimenti lontani: anzi, è vero il contrario.

Da quasi un secolo grazie a radio, televisione e stampa e da qualche decennio grazie da Internet oggi ci si fanno idee assurdamente errate su popoli, tradizioni, usanze e governi di cui un tempo si ignorava del tutto l'esistenza e dilagano incompetenza, ignoranza di ritorno e supponenza nel saper tutto di tutto soltanto perché lo si è letto in Internet creando un popolo di esperti; letto su Internet velocemente e spesso soffermandosi sulle figure proprio come i ragazzini pigri (e futuri ignoranti) guardano solo le figure dei fumetti che leggevano.

Insomma. Corrado Guzzanti tanti anni fa indirettamente aveva colto il senso completo di questo dato fondamentale col suo, da me ribattezzato or ora, teorema dell’aborigeno. E passando dal particolare al generale come ogni buon teorema che voglia esser parte d’una teoria, direi che il senso finale è questo: la maggioranza è aborigena e la conoscenza non avrà mai nulla da dir loro affinché possano assorbirne anche una minima parte.

Corrado Guzzanti–Aborigeno, anni 90

Una botta di culo…

SNAGHTML866911ec

Premessa storica.

Dopo il terremoto dell’Irpina del 23 novembre 1980 per rilanciare 20 zone industriali tra Campania e Basilicata vennero stanziati 7.762 miliardi di lire (circa 8 miliardi di € del 2010). Il costo finale fu dodici volte superiore al previsto in provincia di Avellino e diciassette volte in provincia di Salerno. Secondo la relazione finale della Corte dei Conti, i costi per le infrastrutture crebbero fino a punte «di circa 27 volte rispetto a quelli previsti nelle convenzioni originarie». Il 48,5% delle concessioni industriali (146 casi) venne revocato. La Corte dei Conti accusa «la superficialità degli accertamenti e l'assenza di idonee verifiche», approvate senza «adeguatamente ponderare situazioni imprenditoriali già fragili e già originariamente minate per scarsa professionalità o nelle quali la sopravvalutazione dell'investimento, in relazione alle capacità imprenditoriali, ha portato al fallimento dell'iniziativa». Nel 2000, 76 aziende risultavano già fallite, ma solo una piccola parte dei contributi (il 21% nella provincia di Salerno) era stato recuperato. Io stesso ho visto decine di vecchie stalle abbandonate, spesso a decine di km dalla zona sismica, trasformate in lussuose ville grazie ai fondi ricevuti.

Molte altre volte (qui, qui e ancora qui ad esempio), fin dall’inizio della vicenda, ho parlato del terremoto de L’Aquila 6 aprile 2009 e l’ho fatto anche per parlare di sismologia, di geologia, di rischio e di prevenzione nel nostro paese. Paese in cui, nonostante l’ingresso nell’era moderna, nessun governante ha mai capito veramente cosa voglia dire vivere e produrre in una delle zone tra le più sismiche nel mondo e con un territorio in cui le zone veramente prive di sismicità si contano in punta di dita.

E la città abruzzese presa, non solo per la sua bellezza così adagiata sotto il gigantesco massiccio del Gran Sasso, ad esempio della miopia, dell’inettitudine, dell’incompetenza e della macroscopica imbecillità di chi potrebbe manovrare le giuste leve per fare davvero prevenzione visto che, lo ribadisco, la previsione non è percorribile; anche lo fosse comporterebbe comunque piani ben coordinati di gestione dell’emergenza, come nel caso delle zone vulcaniche (Vesuvio ed Etna tra i tanti) che, ancora una volta in Italia, sono inesistenti.

E così oltre all’assoluta mancanza di competenze e dopo aver assistito anno dopo anno alla morte della città, dove tutto è fermo fin dal 6 aprile 2009, dove nulla è stato fatto, e basta passare per i 2 km scarsi di via XX settembre per rendersi conto della stasi, ancora una volta assistiamo a quanto già visto in altre occasioni, a quei terribili e nauseanti deja vu del malaffare, della speculazione a danno degli innocenti, degli onesti e di chi ha perso da qualcosa a tutto.

E dopo aver scoperto nel 2010 che un paio di sciacalli alle 3.32 di quella notte ridevano, le proteste degli aquilani e le manganellate date loro per aver osato protestare, sembrava aver toccato il fondo. Ma al peggio non c’è mai fine si dice e così a distanza di quasi 4 anni si scopre che nulla è cambiato rispetto agli stessi metodi che in tanti altri disastri nazionali sono stati la normalità. La corruzione fatta sistema dopo aver definito il terremoto un colpo di culo, un’occasione d’oro per mettere le mani sui milioni di euro che sarebbero arrivati.

Mani sulle gare d’appalto per lavori di ricostruzione mai iniziati, tangenti su milioni di euro versati per innalzare recinzioni di plastica e sulla carta chiamarle cantieri, sulla costruzione delle famose unità abitative ultra moderne fatte realizzare da Berlusconi e dalle sue imprese in tempi record senza però avvisare gli occupanti che passata l’emergenza avrebbero dovuto comprarsele! E pur se l’emergenza non sembra aver fine le richieste di soldi sono già arrivate costringendo centinaia di famiglie a tornare nei container o ad arrangiarsi in proprio.

Eppure sembrerebbe che molto sia stato già fatto ed io stesso su queste pagine ho messo in evidenza come non tutto è ripristinabile esattamente com’era, che non tutti i campanili od i palazzi storici devono necessariamente avere finanziamenti se non alla fine, se proprio avanzano soldi: ci sono insomma priorità evidenti. Ma in tutto questo quanto altro ancora si sarebbe potuto fare senza il malaffare sistematico?

Inutile fare gli esempi noti del Giappone che dopo il terremoto di Kobe del 1995 scoprì che c’era stato malaffare e corruzione nella costruzione dei manufatti che non sarebbero dovuti crollare e mise in galera centinaia di amministratori pubblici ed imprenditori privati; ed a nulla servirebbe ricordare ancora una volta lo stesso paese che nel giro di pochi mesi rimise in sesto tutte le infrastrutture dopo il devastante tsunami del 2011.

Dal terremoto dell’Irpina sono passati poco più di 30 anni, nel frattempo sono cadute repubbliche e cambiate intere classi dirigenti e scuole di pensiero. Ma in questi casi ancora una volta il risultato sembra il medesimo a ricordarci che non sono criminalità e malaffare a creare cattivi amministratori ma è la cattiva amministrazione che attira come mosche il miele criminali e delinquenti. Nulla è cambiato ed anzi è peggiorato: si è passati dai pochi grandi burattinai che hanno fatto soldi a danno della maggioranza spartendosi ricche torte di denaro pubblico tra pochi eletti all’interno della casta ad un sistema generalizzato e diffuso dove anche l’ultimo degli uscieri comunali vuole averne parte, dove, per dirla alla Fiorito, rubbaveno tutti.

Effetto di una connivenza tutta italiana con situazioni che nascono e fioriscono dalla e con l’ignoranza: l’ignoranza, l’incompetenza e l’ignavia dantesca della stragrande maggioranza dei nostri concittadini che non hanno mai letto un libro, che l’unica cultura che ricevono è quella televisiva e che persino chi legge almeno un quotidiano ogni tanto ignora che quell’informazione è controllata e manipolata tanto da relegarci parecchio in fondo nella classifica del grado di libertà di stampa.

Un paese di ignoranti, stupidi e furbetti pronti ad approfittare di un qualsiasi vantaggio personale a scapito di chiunque sia fuori della cerchia di amici e parenti in milioni di microcosmi egoisti ed isolati che pretendono di chiamare società. La gran parte degli italiani esattamente com’era fascista la (gran parte(gran parte(gran parte(…)))) fino all’aprile del 1945 salvo sparire nel nulla fin dal mese successivo.

E tutto a breve sarà di nuovo dimenticato…beata ignoranza diceva qualcuno sapendo che così avrebbe aumentato il controllo.

E L’Aquila? L’Aquila in tutto ciò è solo un numero di morti, in questo caso piccolo, ed un numero, parecchio più grande, che indica cittadini noti solo alla statistica dei censimenti.